10 settembre 2019 h 18.00
Cinema Principe Firenze – viale Giacomo Matteotti

Fumetti
// Amore postatomico // Come Prima (Alfred, regia Tommy Weber) // La terra dei figli (Gipi, regia Claudio Cupellini) // 5 è il numero perfetto (Igort, regia Igort) // La profezia dell’armadillo (Zerocalcare, regia Emanuele Scaringi) // Don’t Worry (John Callahan, regia Gus Van Sant) //

Napoli e dintorni
// Caracas // Mixed by Erry // Il buco in testa // Come prima // Nostalgia // È stata la mano di Dio // Il bambino nascosto // Ariaferma // Qui rido io // Il mare non bagna Napoli (libro) // Il sindaco del rione Sanità // Martin Eden // 5 è il numero perfetto // La paranza dei bambini // Il vizio della speranza // Achille Tarallo // Cinema Moderno (articolo) // Una festa esagerata // Napoli velata //

Giappone: non solo manga o anime
// Il ragazzo e l’airone // Penguin Highway // True mothers // Drive my car // 5 è il numero perfetto (nel commento: Quaderni giapponesi di Igort) // Mirai // Un affare di famiglia // Mr Long (attore cinese, ambientazione giapponese) // L’isola dei cani (regista americano, ambientazione giapponese) //

La traduzione nel linguaggio cinematografico del linguaggio dei fumetti (traduzione intersemiotica), spesso, non funziona.
Non funziona se il film si discosta troppo dal fumetto e la sceneggiatura lo banalizza; esempio recente: La profezia dell’armadillo al cinema, ovvero: “come danneggiare il lavoro di un artista con la sua complicità per omissione”.
Zerocalcare si è dissociato dal film, ha detto «non è roba mia, la responsabilità è del regista», ed è vero, però dispiace vedere il suo nome nell’elenco degli sceneggiatori.
Non funziona quando il film cerca di essere troppo fedele al fumetto.
Quando ciò si verifica c’è da chiedersi: perché devo andare al cinema (pagare il biglietto, sedermi in una sala buia senza distrazioni per un’ora e mezza, sopportare gli eventuali sgranocchiatori seriali di popcorn) se posso leggere comodamente il fumetto (oggi si chiama graphic novel, romanzo grafico), seduto in poltrona, prendendolo dalla libreria dove è depositato da anni?
A proposito. Che fine ha fatto?

Mi ricordo che, sfogliandolo in libreria (non la mia, il negozio con la scritta libreria), mi attrasse l’ambientazione napoletana; comprai anche un altro fumetto dello stesso autore.
Solo con i libri mi succede (anche perché solo i libri si sfogliano; non credo che sfogliando una sedia possa venire la voglia di comprarne un’altra dello stesso falegname, anche perché non ho idea di come si possa sfogliare una sedia). Qualche volta mi pento: siccome ho un problema di spazio, compensato dal disordine (quando sono messi alla rinfusa i libri occupano meno spazio), mi domando se posso permettermi la presenza di libri inutili.

In seguito a cambiamenti ripetuti nella organizzazione della vita personale, e al disordine che nella mia libreria la fa da padrone, non riuscivo a trovare il fumetto di Igort, l’avevo un po’ dimenticato.
Colpa mia, perché è un bel fumetto, anche se non è di quelli che mi piacciono di più (i libri che mi piacciono molto li tengo sott’occhio, si possono sfaldare, ridurre in fogli sparsi, coprire di macchie e di scritte illeggibili, ma non c’è pericolo che si perdano).

Igort, il poliedrico autore di 5 è il numero perfetto, ha per me un grande merito: mi ha fatto desiderare di conoscere il Giappone (con il fumetto che comprai a scatola chiusa).
Non che questo abbia comportato qualche cambiamento sostanziale nella mia vita, non mi sono messo a viaggiare nell’impero del sol levante, ho continuato a girare tra gli stessi posti.
Il mio interessamento si è avviato e concluso con l’acquisto dei Quaderni giapponesi, il racconto per testi e immagini, diario grafico dell’avvicinamento di Igort a questa affascinante cultura; per molti anni è vissuto a Tokio, dove, credo, viva anche oggi per buona parte dell’anno e ha lavorato per un’importante casa editrice giapponese.

La grafica di 5 è il numero perfetto – mi riferisco al fumetto – mi piace, anche se la trovo un po’ ripetitiva e poco dinamica.
Mi spiego: le immagini sono ben disegnate, efficaci, ma, ripetute, con piccolissimi cambiamenti, più volte, a lungo andare diventano estenuanti.
Quando Igort disegna uno che corre, non lo vedi correre, vedi un fotogramma della corsa; lo stesso succede con una macchina che sta per investire una banda di criminali. Vedi la macchina e i criminali bloccati, colti in un attimo, non in movimento. Questo intendo per grafica poco dinamica.

Siccome mi ha sempre affascinato la capacità di rendere il movimento – nei fumetti (un qualunque Topolino o, per arrivare ai giorni nostri, un romanzo grafico di Gipi o di Zerocalcare) – nella pittura (Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano) – nella scultura (Il pescatoriello, Vincenzo Gemito; fra le sue dita sembra di vedere sgusciare il pesce) – nella fotografia (Robert Capa, Il miliziano spagnolo, vero, falso, costruito o frutto di uno scatto fortunato non importa) – per me la mancanza di movimento è, se non un difetto, un limite.

La storia raccontata in 5 è il numero perfetto si svolge negli anni settanta a Napoli: storia di camorra.
È stata scritta tra la fine degli anni novanta e i primi del duemila, pubblicata nel 2002, quando Roberto Saviano non era ancora “americano”, era un giovane collaboratore di vari giornali e, con la sua vespa, correva sul posto a vedere con i propri occhi, non appena si sapeva che un camorrista era stato ammazzato in una certa via.

Si può dire tutto su Saviano, non apprezzare l’ultimo film, La paranza dei bambini, tratto da un suo libro (non l’ho apprezzato), ma, indubbiamente, i morti ammazzati, nel libro Gomorra, sono veramente morti ammazzati: chi li descrive li ha visti, ne ha sentito l’odore e ha avuto il coraggio di parlarne.
Riguardo a Saviano, dal punto di vista artistico, separerei il primo libro (e il film di Matteo Garrone) da tutto il resto.

Dal punto di vista umano c’è solo da togliersi il cappello e da riconoscere il contributo che ha dato a una fase della guerra contro la camorra: una guerra che finirà solo con la sconfitta definitiva e la resa senza condizioni dei delinquenti e dei loro complici. Solo quando le bestie feroci e i complici delle bestie feroci, che lavorano nell’ombra, saranno messi in condizioni di non nuocere, si potrà cominciare a festeggiare.

Anche nel fumetto e nel film si parla del “fieto della morte” (il puzzo dei morti ammazzati), ma è un’immagine letteraria, riferita al puzzo della polvere da sparo che resta addosso ai killer. I morti di Gomorra, con la pancia bucata, puzzano di decomposizione.

Come tutti i fumettisti, Igort realizza disegni astratti. Sono astratti i morti e i vivi, è astratta la città, ma è anche irriconoscibile; nel film è malinconica, deprimente, con i vicoli stretti, pieni di scale su cui piove in continuazione.
E che cazzo?! Napoli non è così.

Se Napoli davvero fosse così, non si capirebbe il rimpianto degli emigranti («… Commə putevə fa’ furtun’all’estero / s’iə vogliə campà ccà?», «… Come avrei potuto fare fortuna all’estero, dal momento che, tutto considerato, tra le tante città che ho conosciuto, questa è la mia preferita?», Libero Bovio, Ó paesə d’ó solə).
Sull’utilizzo del simbolo ə, vedere, se c’è bisogno, la nota in fondo al commento al film Achille Tarallo, regia di Antonio Capuano.

Si potrebbe obiettare che si tratta di una Napoli più attuale di quella rimpianta dagli emigranti. È vero. Ma Napoli non è diventata triste, deprimente e brutta com’è rappresentata nel film.

Il naso camuso di don Peppino Lo Cicero forse poteva essere interpretato solo dal naso di Carlo Delle Piane, che l’avrebbe reso espressivo, come nei film della gioventù allegra, spesso accanto a Totò, e in quelli della vecchiaia pensierosa, attore prediletto di Pupi Avati.
Sulla faccia di Toni Servillo è solo un naso posticcio, un orpello che serve a farlo assomigliare al personaggio del fumetto.

La storia è incredibile.

I killer della camorra, negli anni ‘70 come oggi, difficilmente invecchiano, non vanno in pensione per darsi alla pesca con la canna o alla coltivazione delle begonie.
Di solito interrompono bruscamente la carriera andandosene all’altro mondo in compagnia di altri delinquenti o di povere vittime di gravi reati; riescono a invecchiare solo se hanno la fortuna di essere protetti dalle sbarre di un carcere di massima sicurezza; negli anni ‘70 come oggi.

L’astrazione del fumetto, quando viene incarnata dagli attori rende evidente l’assurdità delle situazioni.
Don Peppino ha la tendenza a sparare sentenze, a riversare riflessioni più o meno profonde su chiunque gli capita a tiro, nel fumetto più che nel film.
Per il compleanno regala una pistola al figlio, come gli amici Aldo e Giacomo a Giovanni in La leggenda di Al, John e Jack.
È la stessa scena: il padre orgoglioso di mostrare il regalo, il figlio felice di quel dono e ansioso di provarlo.
Noi ci aspettiamo che il giovane, come Giovanni nell’altro film, cominci a sparare all’impazzata, colpisca chiunque, ammazzi il gatto; almeno, assurdo per assurdo, sarebbe divertente.
Potrebbe anche, con quella pistola, sparare al padre, poi rivolgersi a noi.
«Era l’unico modo per farlo tacere! Non ce la facevo più a sentire i suoi ammonimenti sulla “buona educazione” da dimostrare a qualcuno che sto per ammazzare; le camicie che mi cuciva erano troppo brutte, insopportabili come le sue prediche!». Poi il padre potrebbe alzarsi incolume, risorgere, e la storia continuare come prima. Assurdo? Non più di ciò che realmente accade nel film.

C’è anche il momento Eduardo De Filippo (ma Il sindaco del rione Sanità è un’altra cosa!), quando Peppino, in canottiera, spiega a Rita (Valeria Golino, che a me sembra sacrificata in questo film) il significato del titolo. Secondo lui 5 è il numero perfetto perché il protagonista ha due braccia, due gambe e una faccia; mi sembra che abbia dimenticato qualche parte del corpo.
Avrebbe potuto aggiungere: trentadue denti, sette metri di intestino, un organo sessuale munito di due testicoli, molto sensibili alla noia, a giudicare dalle espressioni che si utilizzano per denotare l’effetto di un film come 5 è il numero perfetto sull’anatomia dello spettatore.

Possibile che una giovane donna (nel fumetto sembra ancora più giovane), così bella, sia innamorata di un vecchio brutto e noioso come don Peppino Lo Cicero?

Sulla spiaggia, alla fine, sembrano padre e figlia, forse addirittura nonno e nipote. Lei legge con interesse (anche per evitare la conversazione) e fra poco si metterà in costume per farsi un bagno, mentre lui riflette, riflette.
Ci starebbe bene, su quella spiaggia, l’ultima scena di Divorzio all’italiana, con il bagnino al posto del marinaio.

Nel fumetto non mi piaceva, e non mi piace, il modo in cui è resa la lingua napoletana all’interno delle nuvolette.
Già nella prima pagina del primo capitolo c’è un «Acca’ nisciuno è fesso», che, secondo me, dovrebbe essere reso con «Ccà nisciunə è fessə».

Come ho più volte ripetuto, secondo me la vocale centrale media, caratteristica della lingua napoletana, dovrebbe essere resa con il simbolo ə (non qualche volta con la o, qualche volta con la e, qualche altra volta con la a), come nelle parole sdrucciole  mammətə = tua madre, sorətə = tua sorella.

Se si parla napoletano non si dice nisciuno, si dice nisciunə, non si dice fesso, si dice fessə (con la e chiusa: féssə);
fessə è aggettivo, significa fesso o fessa (scemo o scema), ma anche sostantivo di genere femminile, col significato di vulva, vagina;
a fessə e mammətə è una delle prime imprecazioni che i ragazzi si scambiano, con la variante a fessə e sorətə che, col moltiplicarsi delle famiglie con figlio unico, diventa sempre più rara (in realtà diventano sempre più rari i ragazzi che, quando litigano, usano queste espressioni).

Si deve notare che la lingua napoletana fa spesso confusione tra due organi vicini dell’apparato genitale femminile (non si è mai sentito a vaginə e mammətə).
Il napoletano è una lingua poco analitica: con quella parola indica un complesso di organi adiacenti, una zona del corpo femminile, senza entrare troppo nei dettagli anatomici. Molto bella, plastica, la variante onomatopeica: a purchiacchə. Questa non è una zona: è proprio la vulva.

In Trentino e in Veneto si usa mona, che, quando arrivai in quelle zone, credevo fosse il corrispondente di cazzo.
È usata allo stesso modo, però designa l’organo femminile; pare derivi da monna e mea domina.

Analogamente, tornando al napoletano, nell’apparato maschile lo scroto è indicato con una sua parte: é pallə (/eppallə/); la parte per il tutto.

Poi c’è la parola che ha quasi perso il riferimento anatomico, tanto viene usata, non solo in napoletano, con funzioni diverse.
L’espressione più comune contenente quella parola – nun mə rompərə ó cazzə! m’e ruttə ó cazzə! – farebbe venire i brividi a chiunque, se pensasse per un momento al suo significato letterale.

Il napoletano è, ripeto, una lingua poco analitica e non si è evoluto con la scienza (anzi, il vocabolario si è ridotto); per indicare i nuovi congegni tecnologici e le nuove scoperte scientifiche c’è solo, volendo, l’accento sull’ultima sillaba, una pronuncia particolare, ma le parole sono quelle delle lingue più diffuse (non credo ci sia un modo napoletano per indicare l’acido deossiribonucleico o le fibre ottiche).

Tornando al fumetto:
i napoletani non dicono acca‘ (qua), dicono ccà;

i napoletani non piangono lacreme napulitane (titolo del capitolo uno), piangono lacrəmə napulitanə, quando apprendono che Assuntulellə chiagnə (la piccola Assuntina, privata della madre, traditrice del povero emigrante, piange);

i napoletani non mangiano patate, come è scritto più volte nel capitolo due, mangiano patanə (a parte il solito segno grafico sbagliato, in patate c’è una t di troppo, che dev’essere n).

È vero che spesso mescolano italiano e napoletano, soprattutto i giovani – ci mettono dentro anche l’inglese – ma i personaggi di quel fumetto non sono giovani, non credo abbiano fatto la scuola dell’obbligo, in inglese conoscono solo la marca delle pistole e quando parlano tra di loro certamente dicono patanə; forse dicono pasta e patate, in italiano, dicono pasta e fagioli (raramente, come in Viviani, past’e fasulə), pasta e ceci (però: cicərə e tagliatellə, un sugo a base di ceci mescolato con le tagliatelle).

Nei nomi dei piatti, anche tipici, si tende a italianizzare: è l’influenza degli addetti al turismo, dei camerieri nei ristoranti, che riportano in famiglia le espressioni usate nella loro professione.

Riguardo al simbolo schwa /ə/, si potrebbe obiettare che tutta la letteratura napoletana è scritta in un certo modo, perché una volta non era facile introdurre un nuovo segno grafico; l’informatica ci ha fatto superare il problema e chiunque può utilizzare segni che sulla macchina per scrivere non esistevano.

In un fumetto le scritte nelle nuvolette fanno parte del disegno, quindi patate al posto di patanə è una scelta, sbagliata, dell’autore.

Molti altri esempi potrei riportare riguardo al sistema di trascrizione della lingua napoletana in questo fumetto, lontano da come viene realmente pronunciata dai parlanti, anche riguardo al modo di parlare  dei personaggi, che, a volte, mi suona artificiale.

Questo problema, naturalmente, non c’è nel film (con Toni Servillo e Carlo Buccirosso non poteva esserci), però una domanda sorge spontanea (è un po’ che non utilizzavo l’espressione del grande Lubrano, un esempio di come si possa parlare con sintassi napoletana, con accento napoletano, in un italiano perfetto e molto bello).

La domanda è questa: come mai i giapponesi riescono a trasferire i fumetti sullo schermo utilizzando l’animazione, e danno la sensazione di non sottrarre nulla, anzi di aggiungere qualcosa al disegno, alla storia, al linguaggio originale, mentre noi diamo la sensazione di impoverirlo?
Forse la risposta sta proprio nell’animazione, che è il giusto tramite tra linguaggio dei fumetti e linguaggio cinematografico.

Gli attori, anche bravissimi, come quelli di 5 è il numero perfetto, fanno sempre un po’ ridere quando vogliono diventare cartoni animati o personaggi dei fumetti (la faccia di don Lava, il bravo Gigio Morra, bloccata per cinque minuti in un’espressione truce da “guappo di cartone”, fa veramente ridere, e non credo sia un effetto voluto).

Immagino un attore che volesse rifare Paperino o Topolino in un film; farebbe solo pena.
Nella versione cinematografica di Asterix, Gérard Depardieu e Roberto Benigni erano completamente fuori dei personaggi che volevano incarnare.
Nel bellissimo  e riuscitissimo Gatta Cenerentola, di Mad Entertainment, era l’animazione a prendere possesso degli attori, non il contrario.
Un’operazione simile (l’animazione) avrebbe salvato le cose buone di 5 è il numero perfetto, che pure ci sono, e attenuato i difetti, che ho cercato di esporre.

Prima di andare al cinema ho riguardato il fumetto.
Dopo ho riguardato i Quaderni giapponesi.

Il diario giapponese di Igort mi piace molto di più del fumetto napoletano.
Il suo stile è preciso, efficace, nella scrittura e nel disegno, quando parla di se stesso, delle persone che ha incontrato, del modo in cui si è avvicinato a una cultura completamente nuova.
Racconta con semplicità i momenti difficili, ma anche la felicità che ha vissuto nel “paradiso dei disegnatori”.
Disegna strade e stradine, alberi secolari, templi buddisti, giardini di azalee (suppongo sia una fetta della realtà, che ha ritagliato in una metropoli moderna proiettata nel futuro).

Dimostra senso dell’umorismo (completamente assente in 5 è il numero perfetto, nonostante si svolga a Napoli), come quando racconta il primo incontro con il capo della casa editrice per cui doveva lavorare.
Non sapeva che in Giappone l’ospite si alza per primo; di conseguenza l’incontro durò tre ore e mezza. Il dirigente continuava a versargli del tè e credette che la sua esitazione ad alzarsi e porre fine alla conversazione dipendesse dall’intenzione di chiedere un compenso maggiore.
In quel lungo incontro gli aumentò per tre volte la paga.
Igort conclude: «Quando si dice la fortuna di non conoscere a fondo le usanze di un luogo».