7 gennaio 2024 h 16.15
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r

I vecchi
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Perfect Days di Wim Wenders.
Hirayama si sveglia, ripiega il materasso arrotolabile (futon) su cui ha dormito, si spazzola i denti, accorcia i baffi, spruzza l’acqua sulle piantine, indossa la tuta da lavoro con la scritta “Tokyo toilets”, carica in macchina gli attrezzi che utilizzerà nel lavoro, beve da una lattina estratta da un distributore automatico, raggiunge il primo bagno pubblico e comincia a pulirlo coscienziosamente. È il suo lavoro.
Se qualcuno entra nella toilette, educatamente esce e aspetta. Poi rientra e riprende le pulizie, sempre con metodo e rigore. Raccoglie le cartacce, passa la spugna sul water, raggiunge le parti meno visibili.
La sua precisione è commovente, anche perché disinteressata: nessun controllore, credo anche in Giappone, lancerà più di un’occhiata superficiale e basta un utilizzatore poco pulito per costringerlo a ricominciare. È un lavoro al servizio dei bisogni che la biologia ci impone. Bisogni basilari, comuni a tutti, collegati ad aspetti disgustosi, di cui ognuno vorrebbe occuparsi in proprio, in situazioni di intimità, senza interferenze degli altri, quasi di nascosto. Non sempre è possibile, non a tutti. L’imbarazzo è evidente quando una signora accenna a entrare e Hirayama interrompe il lavoro. Si porta all’esterno, discreto e silenzioso; aspetta senza dare segni di impazienza; non si muove. Aiuta il bambino che ha perso la mamma, la signora che non riesce ad accendere la luce. Mentre lavora è a disposizione degli altri.
Continua a lavorare fino alla pausa. Poi raggiunge il parco, si siede su una panchina e mangia qualcosa per colazione. Scatta una foto, una sola, delle chiome degli alberi. Scopre una piantina sbucata ai piedi di un albero altissimo. La raccoglie con tutte le radici, la mette in un vasetto con un po’ di terreno per portarla a casa. Riprende il lavoro negli altri bagni pubblici; pulisce con scrupolo, senza fretta, anche negli angoli più difficili da raggiungere, fino a eliminare ogni traccia di sporco visibile.
Quando ha finito il turno è raggiunto da un altro lavoratore, giovane, che inizia il suo. Si reca in un bagno a pagamento per lavarsi. Si lava accuratamente, si rilassa in una grande vasca per idromassaggio, poi va al solito ristorante.
La padrona del ristorante lo accoglie con simpatia; la signora ha una bella voce e canta, a richiesta dei clienti affezionati, The house of the rising sun in giapponese.
Si è fatta sera. Hirayama torna a casa, si stende sul futon e legge alcune pagine di un libro; si addormenta, sogna.
Vediamo le immagini che affollano la mente durante il sonno (sembrano le chiome degli alberi), fino a che, all’alba, si sveglia e ricomincia la routine uguale a quella del giorno precedente: futon, denti, baffi, piantine, lattina, spostamento in macchina per il tempo necessario ad avviare una cassetta (Perfect Day di Lou Reed o altre canzoni americane degli anni settanta); lavoro, bagni a pagamento, ristorante, letto, libro, sonno, sogni.
Qualche cambiamento avviene ogni tanto, ma non è provocato da lui, che ripeterebbe sempre gli stessi gesti negli stessi tempi; è dovuto alle persone che incontra: il giovane che fa il suo lavoro con turni diversi e ha bisogno di un prestito, la nipote, figlia di una sorella, che ha litigato con la mamma e trascorre qualche giorno con lui, l’ex marito della padrona del ristorante, ammalato in fase terminale, che gli confida i suoi pensieri e gioca con Hirayama a calpestarsi le ombre.

«Lo faremo un’altra volta» dice Hirayama alla nipote che vorrebbe programmare qualcosa da fare: «Un’altra volta è un’altra volta» ripete, come un ritornello.
Vive il presente momento per momento, cercando di aderire alla realtà senza farsi influenzare dai ricordi del passato e dalle speranze, o dai timori, del futuro.

Tutto bello. Bravo, come sempre, il regista, bravo l’attore, ma – vogliamo dire la verità? – Hirayama ha una vita di merda. Letteralmente! Ed è costretto a togliersela di dosso nei bagni comuni a pagamento, in una situazione priva di intimità e di dubbia igiene (l’acqua nella vasca, utilizzata da una variegata clientela, viene cambiata o solo agitata?). Va bene accontentarsi del minimo, ma qui siamo al di sotto del minimo accettabile al giorno d’oggi per una vita decente. Soprattutto per un anziano la doccia esclusiva è il minimo. Lavarsi davanti a uno specchio, stando seduto su uno sgabello, in fila con altri, è scomodo. Bere un intruglio, probabilmente gassato, da una lattina estratta da una macchina automatica, fa cominciare male la giornata. Tra l’altro, la lattina è un’invenzione stupida (o troppo furba – per gli interessi dei produttori): protegge il contenuto ma non la bocca dell’utilizzatore. Dov’è il caffè (o, se si preferisce, il tè, il latte, la spremuta di arancia), dov’è un buon bicchiere d’acqua?
Pranzare ogni giorno fuori casa fa male alla salute. Non avere il tempo di leggere un libro durante tutta la giornata e riuscire a leggere solo poche pagine prima di crollare addormentato è triste. Eppure Hirayama ha lo sguardo contento. Ma lui si accontenta, di tutto, anche delle audiocassette che, dopo un tempo più o meno lungo, producevano fruscii sovrapposti alla musica; il nastro, col caldo, tendeva ad afflosciarsi o si rompeva.
Certamente il suono che sentiamo nel film non è quello delle vecchie audiocassette, di un vecchio lettore in una macchina vecchia. A quei tempi ci accontentavamo, anche perché eravamo giovani e non c’era di meglio. Da vecchi ci sentiremmo infelici se non potessimo disporre di un buon suono, del tempo per leggere e, soprattutto, di un cesso e di una doccia personali; aggiungerei il bidet, di cui popoli che si dicono civili stranamente fanno a meno (fanno la doccia ogni volta che vanno in bagno?).

Se Hirayama vivesse in campagna, facesse il contadino o il pastore, si potrebbe ragionare: gli manca la modernità, ha una vita faticosa, ma è a contatto con la natura. Hirayama vive a Tokyo, in una città che sembra completamente cementificata, dove gli alberi del parco, con le radici imprigionate sotto al manto stradale, in un percorso obbligato, sono ergastolani disperati per colpa degli uomini e della longevità (la morte sarebbe una liberazione) e una piantina spuntata nel terreno è in balia di qualunque pedata, di qualunque distratto spazzino o macchina automatica per la raccolta dell’immondizia.
Hirayama è gentile, si piega per salvare la piantina. La estrae con tutte le radici dal luogo dov’è nata. Dove la porta? La porta a casa sua, in un ambiente ostile, dove altre prigioniere languono in attesa di un po’ di acqua e di un po’ di luce naturale.
Che fine faranno quelle piantine «un’altra volta»?
Hirayama non ci pensa; «mò è mò (adesso è adesso), un’altra volta è un’altra volta»; vive nel presente, istante per istante.
Ma un’altra volta, quando non basterà più il vasetto per contenere la piantina raccolta, sarà obbligato a buttarla nell’umido, nonostante il suo amore e le sue gentili innaffiature.
Lo ammetto; una botta di tristezza mi ha preso in quest’inizio del 2024, al pensiero di come l’uomo abbia trasformato, alterato, distrutto l’ambiente in cui vive, di come sia illusorio accontentarsi di fare bene il proprio lavoro.

Qui, in una città che ha ancora spazi di vita, in piazza Dalmazia, davanti al cinema Flora e a una stella natalizia residuo delle feste appena finite, in una giornata fredda e piovosa, una prima buona notizia: le sale cinematografiche sono tornate a riempirsi come una volta (sarà perché la serata è uggiosa?).
Una seconda buona notizia: si riempiono anche con film per i quali  si sarebbe detto “non è di cassetta”, intendendo, ovviamente, “lo vedranno in pochi”. La gente dimostra di essere molto più intelligente di chi crede che sia stupida, e forse si è stufata di essere spinta a passare il pomeriggio della domenica sonnecchiando davanti al televisore.
Nel cinema Flora sono piene le due sale in cui, in orari diversi, sono proiettati tre film di qualità: Colpo di fortuna di Woody Allen, Foglie al vento di Aki Kaurismaki e Perfect Days di Wim Wenders.

Wim Wenders richiama alla memoria Paris, Texas (1984); Paris, Texas richiama alla memoria Harry Dean Stanton; Harry Dean Stanton richiama alla memoria Lucky (2017), un film di John Carroll Lynch.
Riannodo il filo riportando una parte del commento al film Lucky, su questo sito, che ho visto nel 2018.

“Harry Dean Stanton è uno spilungone novantenne (nel film del 2017, nel 2018 era morto) – alto, slanciato, la faccia scavata, il corpo appassito, consumato. Ha al suo attivo una interpretazione straordinaria (secondo me) in un film straordinario (sempre secondo il mio modo di vedere): Paris, Texas (1984) di Wim Wenders. È la storia malinconica di un uomo solo, sbandato, che, dopo avere distrutto la famiglia (gelosia, alcol), cerca la moglie – interpretata dalla splendida Nastassja Kinski di quegli anni – per ricongiungerla al figlio, un bambino cresciuto dalla famiglia del fratello. Ritrova la moglie in un peep show, un posto dove le donne si esibiscono mentre i clienti, nascosti dietro a un vetro semiriflettente, sbirciano.
Harry Dean Stanton parlava poco in Paris,Texas. Il suo personaggio, chiuso in un disperato mutismo, riusciva ad aprirsi solo in quella situazione sbilanciata, mentre sbirciava la moglie senza farsi riconoscere. «Devo spogliarmi?», chiedeva lei, credendo fosse uno dei clienti guardoni. «No, lasci stare», diceva lui: «Parliamo».”

Confrontando Paris, Texas (1984) con Perfect Days (2023) si notano alcune predilezioni di Wim Wenders, conservate passando dall’età giovanile alla vecchiaia (ha settantotto anni).
Ama gli attori che non recitano e sono in grado di interpretare personaggi silenziosi perché hanno la faccia parlante; ama la non recitazione, la parsimonia dei gesti e della voce. In Paris,Texas aveva scelto Harry Dean Stanton, in Perfect Days ha scelto Kōji Yakusho. I due attori, appartenenti a generazioni e a culture diverse, hanno caratteristiche simili.
Ama le storie di uomini solitari che hanno abbandonato la famiglia. Non approfondisce i motivi dell’abbandono, ma questi uomini hanno scelto la solitudine e alla fine confermano la propria scelta, nonostante la nostalgia, che in Perfect Days si esprime con il pianto di Hirayama mentre abbraccia la sorella dopo avere sentito parlare del padre che «non è più quello di una volta».
Ama accompagnare il racconto con canzoni malinconiche che non si sovrappongono alle immagini, non vengono da un altro mondo (come, spesso, accade nei film), ma sono inserite all’interno della storia raccontata.
Ama le storie semplici, quasi prive di trama.

Hiroyama è un uomo che, giunto alle soglie della vecchiaia, ha scelto di vivere da solo, lavorando come pulitore delle toilette pubbliche a Tokyo. Svolge il suo lavoro con precisione e sembra felice.
Il mistero, per me, è: come fa a essere felice o passabilmente contento?

Perfect Day (Lou Reed)
Just a perfect day [Praticamente un giorno perfetto]
Drink Sangria in the park [Bere Sangria nel parco]
And then later, when it gets dark [Poi, più tardi, quando fa buio]
We go home [Torniamo a casa]

Just a perfect day [Praticamente un giorno perfetto]
Feed animals in the zoo [Gli animali mangiano nello zoo]
Then later, a movie too [Più tardi andare al cinema]
And then home [Poi a casa]
Oh, it’s such a perfect day [Oh, è un giorno così perfetto]
I’m glad I spent it with you [Sono contento di averlo passato con te]

Oh, such a perfect day [Oh, un giorno così perfetto]
You just keep me hanging on [Mi fai resistere e andare avanti]
You just keep me hanging on

Just a perfect day [Praticamente un giorno perfetto]
Problems all left alone [Tutti i problemi dimenticati, lasciati soli]
Weekenders on our own [Confonderci tra i turisti]
It’s such fun [È così divertente!]

Just a perfect day
You made me forget myself [Mi hai fatto dimenticare di me stesso]
I thought I was someone else [Mi sembrava di essere un altro]
Someone good, yeah [Uno buono, sì, uno proprio buono]

Oh, it’s such a perfect day [Oh, un giorno così perfetto]
I’m glad I spent it with you [Sono contento di averlo passato con te]
Oh, it’s such a perfect day
You just keep me hanging on [Mi fai resistere e andare avanti]
You just keep me hanging on
You’re going to reap just what you sow [Raccogli ciò che semini]
You’re going to reap just what you sow
You’re going to reap just what you sow
You’re going to reap just what you sow

È proprio vero: si raccoglie ciò che si semina.