25 marzo 2023 h 17.00
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6
Nuovo Cinema Corea
// Ritorno a Seul // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Next Sohee // Miracle: Letters to the President // Nido di vipere // Parasite //
Famiglia (genitori e figli)
// Dostoevskij // Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato // La sala professori (la scuola è un’estensione della famiglia) // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw // Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
Famiglia (fratelli e sorelle)
// Come pecore in mezzo ai lupi // Miracle: Letters to the President // Come prima // Il potere del cane // Marx può aspettare // Raw // Le sorelle Macaluso // I fratelli Sisters // Mirai //
Un film coreano sul senso di colpa: “Miracle: Letters to the President”, regia di Lee Jang-hoon. Chi l’ha perso al cinema può trovarlo su Raiplay.
Come premessa a ogni commento inserirò due punti.
1) Lunghezza dei post. Ognuno è libero di scrivere quanto ritiene opportuno; chi legge, ovviamente, è libero di interrompere la lettura quando vuole. Due libertà a confronto. La questione finisce qui.
2) Spoiler. Ognuno ha il diritto di sentirsi infastidito dalla lettura dei dettagli della trama; chi scrive ha il diritto di non dare importanza alla cosa. Io, per esempio, credo che non potrei rivedere un film o rileggere un libro se la conoscenza della trama mi togliesse il piacere della visione o della lettura. Eppure rivedo molte volte i film e rileggo molte volte i libri che mi piacciono. Avrò visto venti volte “La finestra sul cortile” di Alfred Hitchcock e ogni volta sono rimasto sospeso (suspense) sulla scena finale, pur sapendo come andrà a finire. Credo sia questa la magia del cinema. È una questione soggettiva e si risolve facilmente. AVVISO per chi non ama leggere la trama. Nei righi successivi entro nei dettagli; a me sembra necessario per svolgere alcune riflessioni. Chi non ama lo SPOILER farà bene a interrompere la lettura definitivamente o, se riterrà opportuno, fino a che avrà visto il film. Se ho dimenticato di avvisare esplicitamente in altri commenti, chiedo scusa, non lo farò più. Ripeto: chi patisce lo spoiler farà bene a interrompere la lettura in quanto in questo commento si entra nei dettagli della trama.
In The Whale (regia di Darren Aronofsky) vediamo il senso di colpa in salsa americana. Il protagonista ha abbandonato la moglie e la figlia piccola per un amore impossibile. Lo studente con il quale aveva stabilito un rapporto affettivo si è suicidato; la figlia, divenuta adolescente, lo odia. È diventato una balena spiaggiata in una poltrona. Riempie lo stomaco di pizza molle verniciata con una roba rossastra; in alternativa s’ingozza di panini e di qualsiasi cosa trovi aprendo il frigorifero. Il senso di colpa non si attutisce riempiendosi di cibo: non c’è uno stomaco abbastanza ampio da contenerlo.
In Miracle: Letters to the President vediamo il senso di colpa in salsa coreana. Niente abbuffate. I cibi sembrano vegetariani e sono assunti educatamente con i bastoncini. L’unico eccesso è costituito dalle sigarette che il macchinista dei treni, nei momenti di tensione, fuma una dopo l’altra. Rigorosamente senza filtro.
I volti dei protagonisti esprimono una cupa tristezza. Al contrario, il personaggio di The Whale, nonostante sia depresso, riesce ogni tanto a sorridere, a vedere il lato comico della propria condizione. Quando la figlia furiosa lo minaccia con un coltello lui risponde ridendo: «Non supereresti lo strato di grasso».
I coreani, nel film, reagiscono ai sensi di colpa con la chiusura in se stessi. L’incomunicabilità si trascina per anni, crea equivoci di lunga durata.
Mai uno scambio sincero; il padre guarda diritto, come non vedesse il figlio. Si prova pena per l’uomo e per il ragazzo. Sono obbligati dall’orgoglio a non guardarsi negli occhi.
I personaggi principali di “Miracle: Letters to the President” sono un padre che lavora come macchinista (TAE-YOON; attore Lee Sung-min) e il figlio studente (JOON-KYEONG; attore Park Jeong-min). Protagonisti sono il senso di colpa e l’orgoglio.
Il figlio crede che il padre ce l’abbia con lui, il padre crede che il figlio ce l’abbia con lui; l’equivoco dura da anni e durerà quasi fino alla fine del film. Si risolverà all’ultimo momento e ci darà un respiro di sollievo.
In tutti gli anni di incomprensioni e di dolore padre e figlio parlano poco: si barricano nelle stanzette e dentro al proprio io. Per fortuna c’è il sorriso celestiale di BO KYEONG (attrice Lee Soo-kyung), la sorella del ragazzo; per fortuna c’è l’affetto profondo, commovente, tra fratello e sorella.
L’equivoco nasce dal senso di colpa del padre, conseguenza del suo rispetto eccessivo delle regole. Più che règole erano tégole sulle spalle dei lavoratori. Negli anni ottanta in Corea il lavoratore doveva mettere il lavoro al di sopra degli affetti famigliari e degli interessi personali. Una società che veniva da una profonda miseria e si proiettava verso un travolgente sviluppo economico aveva nei confronti del lavoro il timoroso rispetto che solitamente si riserva alla divinità. Naturalmente questo atteggiamento presentava variazioni individuali dipendenti dall’ambiente in cui si era cresciuti (più povera l’estrazione sociale, più rigido il comportamento).
Il macchinista del treno ha una devozione profonda nei confronti del lavoro e forse anche un grande timore delle autorità. In un momento drammatico non si fa sostituire, quando la moglie sta per partorire in casa, nel villaggio sperduto sulle montagne dove vivono. La posizione del feto rende il parto difficile; l’uomo buono, ma rigido, è assente; la donna muore dando alla luce un bambino. Senso di colpa.
Al povero macchinista sono rimasti i due figli: Joon, nato da quel parto, e Bo, la maggiore.
Joon è bravissimo a scuola; anche Bo è brava, ma rinuncia all’università per dedicarsi al fratello.
Il ragazzo ha sofferto fin da piccolo la freddezza apparente del padre e, quando ha scoperto la causa della morte della madre, ha sospettato che nutrisse un astio, un risentimento nei suoi confronti in quanto causa, anche se involontaria, della disgrazia. I due sono immobilizzati dall’orgoglio e non si chiariscono mai i sentimenti. Ad aggravare la situazione è intervenuto un episodio drammatico.
In quarta elementare il bambino era stato premiato dalla scuola con una coppa. Il padre non poté accompagnarlo alla cerimonia di premiazione in quanto era in servizio. Quell’uomo rigido non si fa mai sostituire: è fatto così, cascasse il mondo rispetta le regole, anche le regole sbagliate.
Il mondo casca proprio addosso a lui.
I due ragazzi, dopo avere partecipato alla premiazione, tornano a casa. Insieme ad altre persone camminano sui binari. Il treno condotto dal padre per poco non li investe.
Per quale motivo gli abitanti del villaggio camminano ogni giorno sui binari per raggiungere la più vicina stazione? Perché nel villaggio non c’è la stazione dei treni: il governo ha deciso che costa troppo. I binari sono l’unica strada per uscire dal villaggio sperduto sulle montagne e recarsi a scuola o al lavoro.
Ogni giorno gli abitanti di tutte le età sono costretti a camminare sui binari per cinque ore per raggiungere la stazione più vicina.
Sono binari unici che s’inerpicano su un lungo ponte e attraversano una lunga galleria. Ogni volta per gli abitanti del villaggio è una roulette russa: il treno è passato o è in ritardo?
Gli abitanti del villaggio conoscono gli orari e aspettano prima di entrare nella galleria e percorrere sui binari il ponte che sovrasta il fiume. Ma non c’è certezza: il treno potrebbe essere in ritardo e i treni merci non hanno un orario fisso e corrono a grande velocità.
Dopo avere partecipato alla premiazione e avere ricevuto la coppa, i due ragazzi percorrono insieme ad altri il ponte ferroviario per tornare a casa. Arriva il treno condotto dal padre. La povera gente si mette di lato per non finire sotto il treno. Nell’agitazione del momento la coppa sfugge dalle mani di Bo, la sorella di Joon, e sta per cadere dal ponte. Bo si sporge per prenderla al volo, perde l’equilibrio, precipita nel fiume. Muore. Il suo corpo non si troverà. Il bambino rimane solo. Disperatamente solo.
Il padre è devastato dal senso di colpa. Se si fosse fatto sostituire avrebbe assistito agli ultimi momenti di vita della moglie, avrebbe potuto aiutarla; se si fosse fatto sostituire, avrebbe accompagnato i due ragazzi: la figlia non sarebbe morta.
I coreani (quelli del film) se la prendono con se stessi, mai con il grasso deputato che vive in una ricca villa e viaggia in macchina con l’autista.
Lui e la sua famiglia non rischiano di finire sotto il treno; abitano nel paese dove si trova il necessario: la stazione e la scuola. Il deputato non soffre di sensi di colpa perché è troppo stupido per soffrirne. Riesce addirittura a sembrare generoso, a fingere di essere generoso, ma non s’impegna per far costruire la stazione.
Non si sente un grido di protesta in tutto il film.
I coreani se la prendono con se stessi, mai con le autorità, mai con il presidente a cui il ragazzo indirizza decine di lettere con la richiesta di costruire e mettere in funzione una stazione dei treni per salvare la vita agli abitanti del villaggio. Sono lettere cortesi ma ferme: «Gentile Signor Presidente, questa è la cinquantaquattresima lettera che le scrivo …».
Il presidente non si degna di rispondere, ma il ragazzo non demorde: ha perduto la sorella per colpa di chi non ha messo una stazione dei treni nel villaggio. Continua a scrivere lettere.
Non so chi fosse il presidente della Corea del Sud negli anni ottanta, quando si svolge questa storia tratta dalla cronaca. In questo film non fa una bella figura.
Come gli indiani dei fumetti, quando va a scuola il ragazzo appoggia l’orecchio sui binari per sentire se il treno sta per arrivare. Poi affronta la galleria e il ponte insieme agli altri. L’angoscia si ripete ogni giorno.
Il ragazzo, divenuto giovanotto, propone agli abitanti del villaggio: facciamo finire queste disgrazie e queste palpitazioni, mettiamo insieme le nostre forze, costruiamo noi la stazione. Tutti s’impegnano in questa impresa e avviene il miracolo del titolo inglese (non so se la parola “miracle” si trovi anche nel titolo coreano).
Il film parte lentamente. Dopo l’incidente, quando ci viene descritta l’adolescenza di Joon, un ragazzo intelligente, studioso, rimasto solo, addolorato per la perdita della sorella, privo di un rapporto con il padre, un po’ ci annoiamo. Abbiamo difficoltà a entrare nella psicologia dei personaggi, evidentemente diversa dalla nostra. Poi, in un flashback, assistiamo al ritorno a casa del bambino dopo la perdita della sorella, vediamo che cosa l’amore può fare: la sorella morta è presente nella stanzetta del ragazzo, lo abbraccia, gli parla come fosse viva. Crediamo a questa invenzione; ci crediamo perché il regista è capace di farcela credere; ci commuoviamo, partecipiamo alla psicologia del personaggio, che, improvvisamente, ci diventa familiare. Joon diventa nostro figlio, nostro fratello, noi stessi.
Dopo il flashback ci affezioniamo a lui, avvertiamo la sua disperazione, la sua privazione del sorriso celestiale della dolce Bo.
Commentando il primo film di Bong John-ho (Cane che abbaia non morde) ho notato che in Corea del Sud pare non esserci l’idea dell’aldilà. Anche in questo film la ragazza morta è viva. Bo mangia con il fratello, ragiona e gioca con il fratello. L’unica particolarità: la ragazza rimane uguale mentre il fratello cresce. A un certo punto la sorella maggiore sarà più piccola del fratello minore. Solo Joon la vede e la vedrà finché sarà necessaria al povero ragazzo rimasto solo. Quando il padre pensa di cambiare casa lui resiste con tutte le sue forze e riesce ad averla vinta. Non vuole andare via da quella casa, da quella stanzetta dove trova, ancora viva, la sorella morta. Non vuole rischiare di perderla. Quando Joon sarà maturo e avrà elaborato il lutto, Bo potrà tranquillamente andarsene da questa vita. Avrà svolto la sua missione.
Dicevo che improvvisamente, come dopo un’illuminazione, ci appare chiara la psicologia e ci affezioniamo ai personaggi; comincia a piacerci, addirittura, la buffa figlia del deputato, che all’inizio consideravamo insopportabile. Continuiamo a odiare il padre della ragazza e, soprattutto, odiamo il presidente, che non risponde alle lettere e non appare nel film.
Ci affezioniamo al povero macchinista rispettoso delle regole, al suo volto devastato dal senso di colpa, al suo sguardo fisso davanti a sé mentre guida il treno, o quando ostinatamente non porta gli occhi sul figlio e si tormenta, quando si immerge nel fiume per suicidarsi, dopo la morte della figlia, ma si ferma in tempo per non lasciare solo l’ultimo bene che gli è rimasto.
Soprattutto gli vogliamo bene quando trova il coraggio di ribellarsi e decide di testa sua. Se si dovessero rispettare le regole la stazione costruita dai cittadini del villaggio non esiste. Ma lui decide: «Il treno farà sosta nella nuova stazione per dieci minuti». Al diavolo le regole, al diavolo i superiori; la sua ribellione è espressa da una frase: «Il treno farà sosta nella nuova stazione per dieci minuti».
Gli vogliamo bene quando, con un moto di orgoglio, dice: «Accompagno io mio figlio a Seul».
Il ragazzo deve raggiungere Seul per partecipare a un concorso: potrebbe diventare l’unico ricercatore coreano alla Nasa, negli Stati Uniti. È il sogno di ogni studente coreano negli anni ottanta.
Durante il viaggio i due si parlano, si guardano negli occhi e superano l’orgoglio che li aveva fatti soffrire per tanti anni. Tornano a essere padre e figlio.
Un bel film. Cresce lentamente, ma lascia il segno. Qualcuno l’ha trovato lacrimoso. Sarò scemo! A me è piaciuto e mi ha commosso.