18 giugno 2022 h 17.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Religioni e/o superstizioni
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Alla vita, bellissimo titolo, in un certo senso è la continuazione di due film che ho visto sul computer (Vimeo) quando le sale cinematografiche erano state riaperte da poco, dopo le fasi più dure della pandemia, e pochi film giravano.
Si tratta di Covered up e The Youngest (regia di Rachel Elitzur) – commenti su questo sito.
L’ambiente umano è lo stesso: gli ebrei ortodossi, quel gruppo particolare di ebrei che interpretano in modo letterale la Torah e cercano di applicare le prescrizioni ricavate dalla lettura continua e ossessiva (dico io) dei testi sacri alla propria vita individuale e di comunità.
Nei due brevi film di Rachel Elitzur il racconto si svolge in Israele, dove gli ebrei ortodossi godono di uno status particolare che consente loro di dedicarsi unicamente alla preghiera, allo studio, alle pratiche religiose.
La regista appartiene a quella comunità e nel docufilm Covered up interpreta sé stessa, riprende anche la madre, il padre, la nonna, la sorella minore, i vicini di casa, le amiche.
Il soggetto intorno a cui ruota il film è la parrucca che le donne sposate devono portare, perché solo il marito ha il diritto di vedere i loro capelli (evidentemente gli uomini sono terrorizzati, non sanno che cosa inventarsi per incatenare le donne).
The Youngest è una piccola storia, delicata; il tema è lo sbocciare dell’amore in un gruppo e in un posto dove le ragazze sono educate fin da piccole alla modestia del vestire e dei comportamenti e si affidano completamente alla tutela del padre o, in mancanza, della madre. La protagonista del film è guidata con mano ferma dalla madre, vedova, severa; ricambia un sentimento di simpatia per un giovane timido, impacciato, appartenente alla comunità. Il giovane ha difficoltà a palesare i propri sentimenti. I vicini di casa, una sensale di matrimoni, persino il rabbino, si muovono spontaneamente per superare le resistenze materne e facilitare l’incontro tra i due. Se l’incontro è visto con favore, viene agevolato in tutti i modi. C’è un’entità superiore – la chiamano Dio, in realtà è la comunità che ti guarda con mille occhi (in cielo, in terra e in ogni luogo) e spinge perché le cose avvengano. Non sappiamo che cosa accadrebbe se la ragazza si innamorasse, ricambiata, di un giovane non ebreo, appartenente a un altro gruppo etnico, se si innamorasse di un ateo. Rachel Elitzur forse non considera questa possibilità, che non rientra nel suo concetto di armonia. È solo un’ipotesi in quanto non conosco altri film di questa regista israeliana.

I due piccoli film esaminati ci danno la possibilità di entrare in una comunità, generalmente inaccessibile, di uomini e donne che, pur vivendo in paesi moderni, tecnologici, avanzati, democratici (nel senso delle democrazie liberali: elezioni libere, parlamento e separazione dei poteri), hanno deciso di farsi governare da regole antiche che a noi sembrano folcloristiche e, per qualche aspetto, pericolose (quando scrivo “noi” mi riferisco a chi, come me, ritiene che la democrazia liberale sia, con tutti i suoi limiti ed errori, il sistema migliore inventato dall’uomo per organizzare la vita comune; niente di trascendentale: solo il sistema di regole che ha dato migliore prova di sé).
Quando nascono problemi – perché la vita è anche questo – i fedeli ebrei ortodossi si impegnano a ritrovare l’armonia facendo ricorso alla tradizione (alle scritture): superano i conflitti confidando in Dio, nella famiglia, nella saggezza del capofamiglia, nei consigli del rabbino; questo è il quadro rappresentato nei due film.

Alla vita, dell’attore francese Stéphane Freiss al suo primo lungometraggio, scalfisce quest’idea di armonia.
Siamo nella campagna pugliese. Un’ampia famiglia di ebrei ortodossi, provenienti da Aix-Le-Bains, si porta nella tenuta di un imprenditore agricolo locale, Elio De Angelis, per procurarsi i gelsi che saranno utilizzati in una cerimonia religiosa.
Per quale motivo, una volta all’anno, da tanti anni, percorrono in treno la distanza che separa Aix-Le-Bains, dipartimento della Savoia, dalla Puglia?
Per gli ebrei ortodossi è fondamentale che i gelsi utilizzati nella cosiddetta Festa delle capanne non siano il risultato di innesti e abbiano determinate caratteristiche riguardo alla presenza di impurità, di segni di alterazione della buccia e anche alle dimensioni dei frutti: in una delle prime scene Elio misura un gelso e dice: «Questo, secondo me, non è kosher: due millimetri di troppo».
Il proprietario della tenuta garantisce che i suoi gelsi non sono innestati. Lo faceva suo padre, da cui ha ereditato la proprietà, e lui continua su questa strada, nonostante ciò comporti un di più di lavoro e meno guadagno. Gli basta che la sua azienda, che fornisce prodotti agricoli ai piccoli negozi del posto, alla fine dell’anno non sia in perdita. Potrebbe lavorare molto meno ricorrendo all’innesto (le piante non innestate sono più delicate) e guadagnare di più vendendo parti del terreno ai soliti affaristi che vogliono trasformare campi agricoli in supermercati e parcheggi.

Elio rispetta una tradizione non sua, una regola che appartiene a clienti un po’ particolari con i quali ha un rapporto di amicizia che dura da decenni e risale a suo padre, a quando era un bambino e faceva domande agli strani ospiti che venivano nella tenuta una volta all’anno.

Per gli ebrei ortodossi la perfezione dei cedri ha un’importanza capitale. Si fidano dell’agricoltore, che conoscono bene, ed eseguono controlli sui frutti, misure, durante il raccolto.

L’incipit del film è molto bello, anche perché sono belli i paesaggi: campagna e mare.
L’imprenditore va a prendere con il camioncino il gruppo di ebrei ortodossi (uomini, donne, bambini) arrivati alla stazione; li porta alla tenuta ma si preoccupa, prima, di spostare dal camion una grande statua di Sant’Antonio che aveva portato a riparare. È affezionato alla statua: non è credente, ama le tradizioni.
Per prendere in carico l’azienda agricola, dopo la morte del padre, ha lasciato il lavoro di gallerista e la casa a Roma e sopporta la lontananza dalla moglie e dai figli piccoli, che non si sono voluti trasferire in campagna.

L’interprete di questo personaggio taciturno e pensieroso è Riccardo Scamarcio. Come il vino buono, Scamarcio col passare del tempo matura: sa scegliere i film e i registi che gli permettono di valorizzare i suoi grandi occhi chiari, belli, sebbene poco espressivi, le sue manone dotate di polsi da lavoratore della terra, il suo fisico massiccio, ben piantato sul terreno, non appesantito, da contadino meridionale. In Tre piani di Nanni Moretti interpreta molto bene un personaggio contorto; in L’ombra del giorno di Giuseppe Piccioni la sua presenza salva un film mediocre; andando indietro: in Loro di Paolo Sorrentino mette in gioco il corpo nei panni di un imprenditore in un campo redditizio: il commercio delle prostitute.

In questo film la sua interpretazione è perfetta, anche perché alterna con naturalezza l’italiano, l’italo-pugliese e il francese, che conosce bene.
Non solo l’incipit, anche la chiusura è bella; nella parte centrale qualcosa poteva essere migliorato per rendere più verosimile la facilità di muoversi della ragazza: va avanti e indietro nella macchina dell’imprenditore, partecipa a una festa di fine raccolto, supera troppo facilmente il controllo del gruppo.
Il sorriso finale di Elio davanti a quella terra e a quel mare, sulla meravigliosa canzone di Lucio Dalla, fa pensare che la storia della povera ragazza incatenata alle tradizioni di una famiglia ebrea ortodossa si risolva, perché ha trovato la forza, il coraggio di imbucare la lettera nella quale spiega al padre: ti voglio bene, vi voglio bene, ma ho bisogno come dell’aria di liberarmi da questo Dio che, secondo voi, vuole farmi vivere una vita monotona, da schiava.
Ma non precorriamo i tempi.

Stavamo all’arrivo nella tenuta, nel periodo di raccolta dei gelsi, di una grande famiglia di ebrei ortodossi: il vecchio capofamiglia, i figli, i nipoti. Le donne sono vestite con “modestia”, i giovani portano il cappellino tondo da cui sbucano i riccioli, un po’ di barbetta e quella specie di divisa nera che richiama alla memoria le pompe funebri; le donne sono dedite ai lavori di casa (tra i quali la pulizia delle parrucche), gli uomini si impegnano nella raccolta dei gelsi e nelle discussioni sui testi sacri, i numerosi bambini (gli ebrei ortodossi applicano alla lettera il comandamento “crescete e moltiplicatevi”), come tutti i bambini, giocano, si rincorrono.
L’imprenditore ama i bambini (soffre la mancanza dei suoi), fa attenzione a ciò che dicono e quando sente che uno dei bambini ha perso la kippah (lo zucchetto rituale) ne realizza uno provvisorio di carta.
Sa disegnare e si sa che i ritratti a matita su un taccuino, lasciati sbadatamente in giro, suscitano l’attenzione delle belle ragazze, secondi solo alla chitarra: per attirare le ragazze o si suona la chitarra (che in questo caso non c’è) o si fanno ritratti a matita, assumendo un’aria modigliana e un po’ picassa che a Scamarcio riesce bene e rientra nella psicologia del personaggio, un gallerista esperto di arte.

Nella grande famiglia sembra regni l’armonia, ma una ragazza, Esther, quella attirata dai ritratti a matita, è inquieta.
Veniamo a sapere, in un modo un po’ particolare, un po’ forzato, attraverso colloqui che la ragazza intreccia utilizzando il computer dell’imprenditore, che già prima del viaggio, a Aix-Le-Bains, ha scoperto altre possibilità, di nascosto ha scoperto altri modi di vivere (diciamola tutta: non noiosi come il modo in cui vivono i giovani ebrei ortodossi). Una volta Esther è persino riuscita ad andare al cinema di nascosto (all’anima della trasgressione!).
Qui una cosa non torna: l’imprenditore, quando viaggia in macchina, utilizza, per mettere la musica, le audiocassette dantan.
Però a casa ha un computer portatile che sembra attuale.
All’epoca delle audiocassette i computer erano scatoloni e il collegamento con internet era agli inizi.
Dove ha imparato la ragazza a chattare, dal momento che addirittura il cinema, per la sua comunità, è una trasgressione? Forse il regista e sceneggiatore (insieme ad altri) ha spostato la storia indietro di una trentina di anni per rendere verosimile il tabù del cinema, ma ha dimenticato di spostare indietro i computer e il collegamento con internet (nel bar del paesino Esther trova un servizio, l’internet point, che si è diffuso da poco).

Esther vede con terrore il suo futuro. Si vede incatenata alle tradizioni, in un mare di noia; vuole trovare la forza di sottrarsi alla volontà di quel Dio che, secondo i membri autorevoli della comunità, la vuole schiava, pretende che non mangi la mela proibita della libertà e che sposi un ragazzo noioso (cappellino tondo, ricciolini, giacca e pantaloni neri da pompe funebri, niente chitarra, niente ritratti a matita, lunghe discussioni su Mosè come l’avessero conosciuto di persona).
L’ho già scritto in altri commenti: i fanatici religiosi (islamici talebani, cristiani fondamentalisti o ebrei ortodossi) saranno sconfitti quando le nuove generazioni, soprattutto le ragazze piene di vita e di voglia di libertà, finalmente, si ribelleranno: butteranno via le parrucche, i veli, i divieti assurdi e tutto l’armamentario che gli uomini hanno inventato (chiamandolo religione) per dominare le donne e costringerle in una condizione di soggezione. I fanatici di tutte le religioni (almeno delle monoteiste più diffuse) sono ossessionati e terrorizzati dalle donne.

Per quale motivo gli ebrei ortodossi fanno tanti sacrifici per trovare gelsi non innestati?
Questa scelta, come tante altre, attiene al loro concetto di purezza.

Ci sono gruppi religiosi (anche gruppi politici passati e presenti, spero non futuri) che pretendono di conformarsi a un ideale di purezza: stabiliscono con un atto di fede quali caratteristiche deve avere un cibo, un modo di pensare, un comportamento, una scelta, per essere puri e pretendono che gli aderenti a quella fede politica o religiosa si adeguino. In effetti vorrebbero costringere tutti ad adeguarsi, ma principalmente si accaniscono sugli affiliati.
Decidono, in modo del tutto arbitrario: “il pacifismo senza se e senza ma” è un ideale di purezza. Se non accetti il “senza se e senza ma” sei un guerrafondaio. Io dico: voglio la pace, ma se la Russia di Putin invade l’Italia mi comporto esattamente come gli ucraini, imparo a usare un mitra e non mi arrendo. Probabilmente mi ammazzeranno, ma, come si diceva una volta, “vendo cara la pelle”. Anche perché arrendersi non serve a niente.
Se Putin trova la strada facile va avanti, e la guerra ricomincia.
«Sei un guerrafondaio!». Traduzione: non accetti l’ideale di purezza. Ebbene sì: se il pacifismo è sinonimo di resa, sono un guerrafondaio, come lo furono i partigiani, che non si arresero al Putin dell’altro secolo, per fortuna.
Altri stabiliscono, in modo arbitrario: la carne deve provenire da animali macellati in un certo modo. Questo è il loro ideale di purezza. Dicono: l’ho letto nel libro sacro a pag. 81: l’ha scritto di suo pugno Mosè, o Elia, o Dio stesso. L’ha scritto lui e l’ha anche sottolineato.
Oppure: i gelsi non devono essere innestati.
Oppure: le donne non devono andare a scuola.
Oppure: le donne non devono mostrare il volto, non devono mostrare i capelli.
Oppure: le donne devono essere sotto la tutela dei maschi, sempre, per tutta la vita. Per quale motivo? È scritto nel testo sacro. Quale? Uno qualsiasi (i fanatici fondamentalisti su questo sono tutti d’accordo). E non farmi più domande perché nel testo sacro è scritto anche: “chi fa domande ha vita breve”.
Ci sono molti modi, arbitrari, per fissare ideali di purezza da perseguire “senza se e senza ma”, molte condizioni che stabiliscono la purezza di una situazione, di un animale (il maiale? Non puro; il criceto? Così così), di un atteggiamento, di una scelta; siccome, di solito, le hanno stabilite gli uomini, di solito sono condizioni a danno delle donne.
Altro esempio, minimo, legato alla piccola, ridicola, vicenda politica italiana recente (spero in via di estinzione).
Basta che qualcuno, da un palco, si metta a gridare: “onestà onestà!” – dimenticando di aggiungere: “competenza competenza!” – e l’onestà priva di competenza diventa ideale di purezza e ci ritroviamo personaggi incredibili a svolgere il ruolo di ministri, sottosegretari, ecc., facendo più danni che se fossero disonesti.

La ragazza ha scoperto la mela proibita, la libertà, e ha deciso di ribellarsi.
Nella chiusura del film, sulle note della canzone di Lucio Dalla, nello sguardo sorridente del personaggio interpretato da Riccardo Scamarcio, il gallerista imprenditore agricolo Elio De Angelis, c’è la speranza che quella mela diventi il nutrimento necessario per liberarla dalla schiavitù, portarla a sposare il suo amico francese, a tradirlo con l’imprenditore italiano bravo a fare i ritratti, a divorziare, sposare l’italiano, divorziare anche da lui e godersi la libertà «ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta».