
20 marzo 2023 h 17.00
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6
Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
// Come pecore in mezzo ai lupi // Sanctuary (thriller psicologico) // Beau ha paura [Beau is afraid] // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Preparativi per stare insieme … (thriller psicologico) // L’ultima notte di Amore (noir metropolitano) // Holy Spider // M3GAN // Bones and All // Nido di vipere // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // La fiera delle illusioni // America Latina // Raw /e/ Titane // Doppia pelle [Le daim] // Il sospetto [Jagten] // Favolacce // Notorious! // Parasite // Il signor diavolo // The dead don’t die // Border: creature di confine // La casa di Jack // Gli uccelli [The birds] // L’albero del vicino //
Psicanalisi (“The doctor is in”)
// Beau ha paura [Beau is afraid] // Preparativi per stare insieme … // Tre piani // Un divano a Tunisi // Doppio amore [L’amant double] //
Film asciutto, essenziale, astratto, malinconico, com’è tradizione della cinematografia ungherese (Miklós Jancsó).
La malinconia è tipica della società ungherese nei tempi moderni; non lo era nell’ottocento e nel novecento fino alla prima guerra mondiale e conseguente dissoluzione dell’impero austroungarico.
Poi è subentrata la malinconia, che ha raggiunto limiti estremi alcuni decenni dopo, sotto il regime sovietico.
Negli anni settanta e ottanta l’Ungheria aveva un alto tasso di suicidi nella popolazione e tra gli intellettuali.
Il film è un thriller, molto diverso da L’ultima notte di Amore.
Non ci sono poliziotti, trafficanti di gioielli, agguati, assassini, colpi di pistola. È un thriller psicologico che s’ispira al cinema di Alfred Hitchcock.
La dottoressa ungherese si è trasferita in America per studiare e ha fatto una brillante carriera in un ospedale del New Jersey.
Molto bella, occhi blu, sguardo profondo; malinconica; si chiama Márta Vizy (in ungherese si mette prima il cognome poi il nome; per semplicità usiamo il modo nostro di indicare i nomi delle persone); vive da sola.
I personaggi sono medici specialisti in neurochirurgia: operano su pazienti che “perdono le parole” o sentono improvvisi acufeni o avvertono strani dolori dietro un orecchio. Questi medici devono essere estremamente preparati; nel corso dell’intervento prendono decisioni difficili: per esempio sacrificare i centri della vista per salvare i ricordi e consentire alla mente del paziente di sopravvivere.
Dice il dottor János Drexler (personaggio del film) alla presentazione di un suo libro: lungo il Danubio si vedono edifici bellissimi; non notiamo gli edifici brutti, che pure ci sono; distruggendo gli edifici brutti e lasciando al loro posto uno spazio vuoto si salverebbe la bellezza del tutto.
Nel corso dell’intervento sul cervello (a cranio aperto) il paziente è cosciente, non avverte dolore; deve collaborare. Il chirurgo, mentre elimina zone malate per salvare il resto, segue le sue reazioni. Il paziente elenca le immagini che vede su uno schermo. Quando confonde il lago Balaton con il mare la dottoressa interrompe l’intervento.
È molto brava: riceve i complimenti dai pazienti che salva e dai loro parenti. Meno felici sono i colleghi invidiosi.
Si è trasferita improvvisamente dal New Jersey, dove è rimasta per otto anni, a Budapest dopo un incontro fulminante.
Márta ha conosciuto, durante lo svolgimento di un congresso in America, un neurochirurgo ungherese di cui si è innamorata a prima vista. Passione reciproca nel tempo di un incontro. Il giorno dopo il dottore è dovuto tornare in Ungheria. Appuntamento a Budapest, sul Ponte della Libertà, dal lato di Pest, alle cinque del pomeriggio.
Budapest è il complesso di due antichi centri abitati, Buda e Pest, che si trovano da parti opposte sulle due rive del Danubio. Per esattezza sono tre: Buda e Óbuda sul lato OVEST (riva sinistra), Pest sul lato EST (riva destra), collegati da ponti; il più famoso e antico è il Ponte delle Catene, attraversando il quale in direzione di Buda si raggiungono monumenti molto frequentati dai turisti: Chiesa di Mattia, Bastione dei pescatori, Palazzo Reale o Castello di Buda (tramite la funicolare). Il Palazzo del Parlamento si trova sul Danubio, dalla parte di Pest. Un ponte un po’ più periferico, altrettanto bello, è il Ponte della Libertà: Szabadság híd.
Dunque: appuntamento sul Ponte della Libertà, lato Pest, alle cinque del pomeriggio. Márta conosce il nome dell’uomo, János Drexler, e nient’altro; non conosce il suo indirizzo, la sua email, il suo numero di telefono. Sa solo che è un neurochirurgo e che lavora a Budapest.
È innamorata, ha la sensazione di avere trovato l’uomo della sua vita.
Quando si è avvicinata a lui, durante il congresso, non sapeva che fosse ungherese: sono stati insieme per una notte, lui è andato via. Con lei è rimasto l’appuntamento.
La dottoressa si dimette dall’ospedale del New Jersey, lascia tutto, sale su un aereo per raggiungere Budapest.
La storia raccontata da questo film è così strana che, secondo me, probabilmente è vera.
Márta non ha problemi economici; ha raggiunto un tale livello di competenza da poter trovare lavoro dappertutto. Il suo lavoro la porta a dare peso alle cose veramente importanti. Ogni giorno si confronta con il limite tra la salute e la malattia, tra la vita e la morte dei pazienti. Sa che la prudenza, di cui riempiamo le nostre vite, come se fossero eterne, non conta nulla. Basta un dolorino dietro un orecchio e la stabilità, a cui abbiamo dedicato la vita, se ne va a farsi fottere: possiamo trovarci sull’orlo di un baratro; possiamo caderci dentro dopo avere inutilmente cercato un appiglio.
Una ragazza che vive così e non ha problemi economici può fare una scelta radicale improvvisa, se ha la sensazione di avere trovato qualcuno che riempie il vuoto che ha dentro.
In America Márta ha costruito una brillante carriera, ma, sul piano personale, solo qualche amicizia.
Raggiunge Budapest, si porta sul Ponte della Libertà, dal lato Pest, alle diciassette, e si guarda intorno.
János non c’è. Aspetta. Non c’è.
Cammina avvilita, continua a guardarsi intorno e, in mezzo alla folla, lo vede; è lui, János.
Lo raggiunge. Lui la guarda sbalordito, dice «Signora, si dev’essere confusa: non la conosco», e si allontana.
Lei rimane sconvolta; perde i sensi.
I passanti l’aiutano a rialzarsi, le danno un po’ d’acqua; un giovane si offre di aiutarla. «No grazie. Kösszönöm szépen: grazie mille.» Si avvia barcollando in albergo; si riprende e decide di restare a Budapest.
Entra nel gruppo di un suo vecchio professore, in ospedale. Il professore, che la stima molto, l’avverte: «I colleghi ti faranno la guerra, perché tu sei di un altro livello»; trova casa di fronte al ponte della Libertà, dal lato di Pest. Da una finestra può guardare sul ponte.
Scopre il decadimento morale che si è verificato negli ultimi tempi nel settore della sanità ungherese: un paziente cerca di passarle una mazzetta “dovuta”, che lei rifiuta.
Rivede il dottor János Drexler, neurochirurgo e brillante scrittore.
Le viene un dubbio: la mia mente potrebbe avere partorito l’incontro con quell’uomo, l’appuntamento a Budapest. Pensa: forse mi sono innamorata di uno sconosciuto e ho immaginato il resto.
Il regista la inquadra mentre a letto si sbottona il pigiama davanti, lentamente fa scendere la mano e si masturba.
Nella masturbazione un “incontro” mentale diventa vivo e reale al punto da eccitare, da dare piacere.
Anche l’incontro di Márta con János, nel corso del congresso di medici in America, potrebbe essere stato mentale. E lei potrebbe avere confuso l’immaginazione con la realtà.
Per risolvere il dubbio si rivolge a uno psicanalista. Assistiamo ad alcune sedute.
Il thriller è interessante e, come ho scritto all’inizio, sembra un film di Hitchcock, anche perché è girato su pellicola e ha un’aria antica: i colori sono tenui, quasi sfociano nel bianco e nero.
Mi è piaciuto molto … fino a un certo punto.
La conclusione non mi è sembrata all’altezza della complessità del tema proposto: possiamo credere alla nostra mente, alle cose che vediamo, agli eventi che viviamo? Siamo certi di non confondere la realtà con i prodotti dell’intelligenza artificiale (questo lo aggiungo io) o con la nostra immaginazione?
Il tema non è stato risolto, naturalmente, né poteva essere risolto da un film. Ma neanche è stato lasciato in sospeso, lasciato alla interpretazione degli spettatori.
Nelle ultime scene la regista l’ha dimenticato (così sembra).
È come se qualcuno, i produttori, per esempio, avesse detto alla regista: ora devi dare al film una conclusione sdolcinata, altrimenti nessuno andrà a vederlo. È una mia ipotesi basata su nulla; nessun indizio. È un sospetto che mi serve per spiegarmi il crollo finale del film: da thriller psicologico a commedia sentimentale.
Quale altra soluzione la regista avrebbe potuto trovare?
Non so. Non è affar mio.
Mi sarei aspettato un collegamento tra la soluzione del film e la metafora raccontata dal dottore scrittore: distruggiamo cose brutte perché la bellezza sopravviva. Non c’è questo collegamento, o non l’ho capito.
Anche nessuna soluzione la regista avrebbe potuto proporre e lasciare il problema nella testa degli spettatori.
Forse la storia è reale, le cose sono veramente andate così; in tal caso il film è un esempio di come la realtà sia, molte volte, più deludente dell’immaginazione.
Come diceva quel personaggio di È stata la mano di Dio?
Diceva: la realtà mi delude.
