15 maggio 2023 h 17.00
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Temi
Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
// BlackBerry (thriller tecnologico) // Club Zero (horror alimentare) // Come pecore in mezzo ai lupi // Sanctuary (thriller psicologico) // Beau ha paura [Beau is afraid] // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Preparativi per stare insieme … (thriller psicologico) // L’ultima notte di Amore (noir metropolitano) // Holy Spider // M3GAN (thriller distopico) // Bones and All (horror cannibale) // Nido di vipere // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // La fiera delle illusioni // America Latina // Raw (horror cannibale) // Titane // Doppia pelle [Le daim] // Il sospetto [Jagten] // Favolacce // Notorious! (thriller H) // Parasite // Il signor diavolo // The dead don’t die (gli zombie sono tornati) // Border: creature di confine // La casa di Jack // Gli uccelli [The birds] (horror H) // L’albero del vicino //

Famiglia (genitori e figli)
// La sala professori (la scuola è un’estensione della famiglia) // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw /e/ Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //

Psicanalisi (“The doctor is in”)
// Frammenti di un percorso amoroso // Sick of Myself // Beau ha paura [Beau is afraid] // Preparativi per stare insieme … // Tre piani // Un divano a Tunisi // Doppio amore [L’amant double] //

Beau is afraid è lo sviluppo di un cortometraggio che si chiama Beau. Non solo il nome del personaggio principale, anche la situazione di partenza è la stessa.
Il rapporto difficile e complicato all’interno della famiglia è spesso presente nei corti di Ari Aster.
In The strange thing about the Johnsons più che di un rapporto complicato si tratta della descrizione di una situazione mostruosa e si evidenzia il gusto del regista per l’horror presente nella vita quotidiana, nelle famiglie apparentemente felici.
L’orrore si accumula, l’ipocrisia fa incancrenire le situazioni, la casa non è più rifugio: la vittima è sola, indifesa, soggetta alla violenza sfrenata del più forte. L’amore può ammalarsi e spingere a compiere azioni tremende.
In Munchausen, reperibile facilmente su youTube, la suspense è basata sulla sindrome di Munchausen, una condizione psichica patologica che induce la madre a fare del male al figlio per non perderlo.
Una madre, atterrita dall’autonomia del figlio che sta per lasciare la casa per andare al college, mette alcune gocce di veleno nella sua colazione per impedirgli di partire. Poi, quando il ragazzo sta per guarire dall’intossicazione e si sta preparando nuovamente a partire, aggiunge il veleno alla zuppa, fino a provocare la morte del figlio.
Evidentemente il rapporto tra madre e figlio, a volte sottilmente basato sul ricatto affettivo reciproco, interessa molto il regista.

I corti di Ari Aster, girati molto bene, mi confermano nell’idea che i registi si esprimono nel modo migliore se sono limitati dalla durata del film.
Si potrebbe pensare il contrario: il regista è bravo, diamogli tutto il tempo che gli serve. Non funziona così: la necessità di rispettare i tempi costringe a fare scelte faticose che si risolvono in un miglioramento della qualità complessiva.
Trovo assai negativa, per loro, la tendenza attuale di alcuni registi a realizzare serie televisive; tutto quel tempo a disposizione mi sembra uno spreco e temo che spinga alla ripetizione e al salvataggio, nefasto, di scene buone ma non indispensabili.
Questo vale soprattutto per un regista relativamente giovane che deve abituarsi a gestire al meglio la durata del film e delle sue parti: le tre ore di Beau is afraid non solo distraggono gli spettatori, sono eccessive in sé.
Eravamo in quattro in una saletta piccola del cinema Odeon di Pisa, nella bellissima piazza San Paolo all’Orto (peccato per le macchine in sosta, al posto delle quali metterei tante panchine e qualche siepe di rosmarino).
La saletta ha le pareti dei bagni rivestite con le foto dei grandi del cinema italiano (in testa a uno dei commenti ho messo la foto delle pareti).
Alla fine del film, mentre ci alzavamo un po’ stanchi (almeno io) e raggiungevamo l’uscita, la mia osservazione sulla durata eccessiva non è stata condivisa da uno spettatore su quattro. Ha detto: «Continuerei a vedere scene così belle e non mi sono stancato».
Questo per dire che le opinioni sono diverse. Condivido il giudizio sulla bellezza di molte scene, ma trovo la trama poco convincente, soprattutto perché troppo diluita.
Come sempre parlerò della trama; si fermi pure chi non ama lo spoiler.
Mi si dice: non cercare le contraddizioni o le assurdità; devi abbandonarti al film.
La risposta è sempre la stessa: non sono io a decidere di abbandonarmi, il regista deve costringermi a farlo. È ciò che chiamo: catturare lo spettatore.
Questo film mi ha catturato? A tratti, poi, stanco, mi sono lasciato andare, non al film, al senso critico.

Assistiamo alla nascita di Beau in soggettiva, nel grembo materno, dal punto di vista del feto che diventa neonato.
Ho apprezzato molto questo incipit, l’idea di rappresentare il passaggio da un ambiente protettivo a un ambiente pauroso che ci accoglie con urli, luci, rumori, strapazzamenti.
Anch’io ho sempre pensato che la paura comincia in quel momento, o, forse, prima di quel momento, quando il relativo isolamento dal mondo esterno si riduce.
Dopo il gemito collegato alla nascita troviamo il personaggio adulto nel corso di una seduta psicoanalitica (l’invenzione più recente per combattere la paura, dopo la religione e il potere).
Il dottore, grasso e sorridente, scrive su un taccuino, in bella grafia: «Senso di colpa», come non sapesse che metà delle fondamenta su cui poggia l’edificio che gli dà da vivere si chiama “senso di colpa”, l’altra metà si chiama “spinta sessuale”. È come se prendesse appunti per ricordarsi di chiudere gli occhi quando dorme.
Farebbe meglio ad annotare, come promemoria, l’opportunità, prescritta dal metodo inventato da Sigmund Freud, di evitare domande al paziente troppo esplicite e contenenti la risposta. Per esempio: «Ha mai desiderato che sua madre morisse?».
Che cosa si aspettava? Che Beau rispondesse: «Ovviamente sì, dottore»?
O si aspettava che rimuovesse il desiderio, che lo negasse, per dargli una dimostrazione di finezza? Infatti Beau lo nega e il dottore aggiunge: «C’è differenza tra volere e desiderare, mio caro»; sottinteso: quanto sono bravo!
In risposta a questa domanda, che anticipa drammaticamente la conclusione del percorso psicanalitico e lo ostacola, Beau avrebbe dovuto dire: chi le ha dato la laurea e la patente per esercitare questo lavoro? Gliel’hanno data con i punti raccolti al supermercato? Mi faccia vedere i titoli di studio, dottore.
Ma Beau non reagisce mai quando la vita, o chiunque, lo aggredisce.

Innanzitutto la sua voce (la voce del doppiatore, che probabilmente si rifà alla voce di Joaquin Phoenix nell’interpretare il personaggio) è quella di un bambino cresciuto male: lamentosa, piagnucolosa, infantile.
Ci domandiamo come abbia fatto la madre a ridurlo in quelle condizioni, finché non la vediamo in azione nell’ultima parte del film, interpretata da un’altra attrice, molto diversa, di proposito, dall’attrice che interpreta la madre da giovane.
Ma forse, anzi sicuramente, quella è la figura materna terribile che Beau ha costruito nel suo inconscio in assenza di una figura paterna che la compensasse; il padre sarebbe morto – ma nulla è certo in questo film – in circostanze assai curiose e particolari.

Diciamolo pure, togliamoci il dente: il padre sarebbe morto la prima notte di nozze mentre era in corso, in pieno svolgimento, con rulli di tamburi e squilli di tromba, il primo rapporto sessuale della sua vita. Una strana circostanza che si sarebbe verificata a causa di una particolare caratteristica genetica che il padre aveva in comune con il nonno e con il bisnonno: tutti e tre sono morti la prima notte di nozze. Mi viene in mente La gatta Cenerentola di Roberto De Simone e il canto della matrigna che racconta: tutti e sette i mariti sono morti la prima notte di nozze. Non c’entra niente, forse, ma c’è un’assonanza dei racconti e una somiglianza dei personaggi: la matrigna e la madre.
Non ci meravigliamo che Beau, un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquanta, sia vergine.
La faccenda genetica è raccontata dalla madre, quindi non si sa se sia vera o se veramente l’abbia raccontata. Potrebbe averlo immaginato Beau; potrebbe essere la proiezione defunto di un suo problema sessuale.
La paura della morte nel corso di un rapporto sessuale ha a che fare con il terrore della castrazione e nella scena in cui Beau ha finalmente un incontro molto ravvicinato con la ragazza di cui, da adolescente, era innamorato, la sua faccia sembra più terrorizzata che compiaciuta.
Forse la storia era stata inventata dalla madre per dominarlo. Tra parentesi: siamo in una dimensione horror del solito vecchio problema affrontato più volte da Woody Allen in modo molto più divertente.

Dal momento che Beau è un campione di scalogna, la maledizione si trasferisce sulla ragazza, che muore irrigidendo le gambe aperte e rimanendo in quella posizione, come una statua, fino a quando viene portata via (un rigor mortis anticipato). Sfortuna o simbologia psicoanalitica non sappiamo (lo sa Ari Aster).

Fin dall’inizio vediamo che Beau vive in un posto tranquillo (si fa per dire), dove i cadaveri fioccano nelle strade, il più normale è un drogato, qualcuno urla dall’ultimo piano perché si vuole buttare o lo stanno buttando giù, gli assassini girano a piede libero e i poliziotti impugnano la pistola per minacciare cittadini che fuggono nudi da una vasca da bagno in cui si è introdotto un senzatetto: una ridente cittadina americana, ridente al punto che se un poliziotto ti dice «Non ti muovere» non ti devi muovere, non devi neanche tremare.

Ogni volta che rientra in casa Beau deve prendere la rincorsa, non per seguire un programma di fitness ma per sfuggire agli invasori che cercano di introdursi nel suo appartamento. Gli invasori riescono a entrare per una serie di coincidenze concentriche (dentro a una coincidenza se ne verificano altre) e al poveraccio non resta che assistere allo scempio da una impalcatura fuori dalla finestra, fino a quando la festa finisce e lui si sveglia sull’impalcatura mentre un operaio lavora tranquillamente col suo trapano. In quell’inferno solo gli operai non sono terrorizzati.

C’è un gusto del grottesco in questa prima parte; diventa meno grossolano quando Beau incontra una strana coppia di strani benefattori che nascondono il male sotto una fitta coltre di bene finto.
Ammiriamo la resistenza del personaggio: riesce a scappare avendo una ferita aperta sul diaframma, inseguito da tutti, fino a che sbatte con la testa contro qualcosa e, per un po’, si riposa. Gli inseguitori non approfittano della sosta per raggiungerlo.
Si sa che l’incubo consiste nell’inseguimento.
Poi il film, fino alla svolta nell’ultima parte, cambia genere: da horror diventa graphic novel e riesce a trascinarci in un sogno. Un lungo sogno agreste che potrebbe essere un altro film, comincia dentro a un’allegra comunità di attori (gli unici personaggi allegri, ma anch’essi misteriosi), è interrotto da un brusco risveglio. All’interno la battuta che mi ha sempre colpito, tratta da Amleto: «When sorrows come, they come not single spies. But in battalions!» – «Quando le sciagure vengono, non vengono mai sole, come avanguardie solitarie; vengono a intere legioni!»

Finisce il sogno; ricomincia l’incubo. Si torna nella simbologia freudiana senza ritegno: casa materna = cappella mortuaria, primo rapporto sessuale con l’amica che s’irrigidisce, figura materna resuscitata, anzi mai morta (anche Beau ha una bella resistenza), soppalco con il prigioniero e con i mostri, di nuovo fuga, barca. Il fiumiciattolo finisce in un laghetto con poco fondo (ma perché non spegneva il motore?), l’arena gremita di spettatori che assistono al processo, il giudice in primo piano elenca le accuse, sottolineate dalla madre; il difensore costretto a parlare da lontano, in mezzo al pubblico (così mi è parso), l’allegro terapista utilizza le sedute registrate come prove d’accusa (Freud si è rivoltato nella tomba, come si dice, ma non so come possa rivoltarsi la cenere), fino alla fine, di Beau e del film.

Finisce nell’acqua al centro dell’arena, come è iniziato nel liquido amniotico: l’acqua ribolle per un po’, dopo la condanna e l’immersione di Beau, forse l’annegamento; il gorgoglio finisce, risentiamo il gemito che abbiamo avvertito nell’incipit. È il gemito della morte o si ricomincia?