9 marzo 2023 h 18.00
Cinema Arsenale Pisa – vicolo Scaramucci, 2

Film brutti. Decisamente brutti
// Civil War // Enea // Chi segna vince // La guerra del Tiburtino III // Mi fanno male i capelli // Felicità // L’ordine del tempo // Educazione Fisica // Un uomo felice // Il primo giorno della mia vita // Vicini di casa // War La guerra desiderata // La figlia oscura (nei commenti brevi) // Dune // Domani è un altro giorno // Dead in a week // Una vita spericolata // Doppio amore [L’amant double] // Sono tornato //

Nello sguardo di Fabrice Luchini si legge: «Che sto facendo?»
Ho notato che in molti casi i film brutti hanno come interpreti uno o più grandi attori.
Secondo me i produttori sanno che quel film è brutto (non sono scemi), hanno qualche motivo per realizzarlo (investire denaro), cercano di parare il culo chiamando a interpretarlo attori sui quali non si potranno scagliare i fulmini della critica, attori che attireranno gli spettatori.
Una volta che hanno usufruito dei finanziamenti, risparmiato le tasse (la scritta che appare su tutti i titoli di coda), gli spettatori hanno pagato il biglietto d’ingresso in sala, a loro non importa più nulla: lo mandano in televisione (altri soldi garantiti dalla presenza dell’attore famoso) e chi si è visto si è visto.
Verifico l’ipotesi con gli ultimi film brutti che mi è capitato di vedere e di commentare.

War La guerra desiderata – Edoardo Leo
Vicini di casa – Claudio Bisio
Il primo giorno della mia vita – Toni Servillo
Un uomo felice – Fabrice Luchini

Inserire un grande interprete in un film brutto non solleva le sorti del film, perché l’attore, mortificato da una sceneggiatura inconsistente, si attacca a un modello per portare a casa un risultato.
Per esempio Fabrice Luchini, nell’interpretare un borghese di mezz’età avanzata, sindaco di una cittadina francese, ha preso a modello Louis de Funès.
L’isterico, aggressivo, antipatico Louis de Funès era unico e faceva molto ridere perché non teneva in alcun conto i buoni sentimenti, gli alti valori, il giudizio degli altri; in altre parole: era politicamente scorretto.
In questo film Luchini ricorda Louis de Funès, anche se di tutte le qualità del grande attore francese (reazioni isteriche, aggressività, scorrettezza, antipatia, comicità) dopo un po’ rimane solo l’antipatia, non l’antipatia simpatica dell’originale ma quella insopportabile di un moralizzatore ipocrita.
Gli manca, soprattutto, per difetto di sceneggiatura, la comicità, e questo è grave per un film che vorrebbe essere comico ma, tranne in alcuni momenti isolati e riassunti nel trailer, non fa ridere.
Con questo trucco il regista mi ha fregato e ha fregato altri spettatori che hanno visto il trailer e hanno pensato: finalmente un film comico.
Niente da fare: abbiamo riso guardando il trailer. Basta. Non si ride più.

Il film vorrebbe esemplificare la fluidità di genere, invece, all’opposto, fissa il genere maschile e, di conseguenza, il genere femminile in un modello ottocentesco sopravvissuto nel novecento fino agli anni sessanta, quando un vento nuovo lo ha spazzato via.

La moglie del sindaco ha tutte le caratteristiche per essere donna: ha gli organi genitali, l’aspetto, gli ormoni, il DNA femminili. Ama il marito, con il quale ha generato, educato, cresciuto tre figli.
Però dice: «Mi sono sempre sentita un uomo».
Che significa? Le piace indossare i pantaloni e non le piace indossare reggiseni e gonna. Questo, secondo gli sceneggiatori, sarebbe un segno di mascolinità. Scherziamo? Siamo nella Francia del 2023 o nella Francia dei ricordi di Proust?

Udite udite. Un segno della trasformazione della signora Edith in Edi sarebbe il seguente: Edi sputa mentre scava un buco in giardino. Questo, sempre secondo quei geni degli sceneggiatori, una donna non lo farebbe mai. Scherziamo? Ma dove vivono?

Ci siamo detti, dopo i primi minuti: forse questa donna diventata uomo non è più attratta sessualmente dal marito. È logico supporlo.
Invece no: lei continua a desiderare rapporti sessuali con il sindaco e alla sua domanda: «Come si spiega?», risponde: «Sono gay».
Qui siamo oltre la fluidità di genere, siamo a una concezione astratta dell’essere umano: un dogma di fede.
Come se gli appartenenti alla specie homo sapiens fossero carte da gioco. Dal mazzo si può estrarre qualunque carta e, dunque, è possibile un numero enorme di combinazioni.
Allora ci domandiamo: come mai il sindaco è ancora attratto da Edi? A meno che anche lui sia omosessuale maschile o sia un trans femminile.
Se fosse un trans femminile non attrarrebbe sessualmente la moglie, che, grazie alle iniezioni di testosterone, è un trans maschile, ma è omosessuale.
Se il sindaco è maschio e omosessuale, le posizioni si sono invertite, più o meno: la coppia è solida; si cambia l’ordine dei fattori (o degli addendi), il risultato non cambia.
Roba da mettere in crisi uno psicanalista che si trovi a seguire la moglie, il marito, o entrambi.
Mescoliamo le carte, ne estraiamo due dal mazzo: sul tavolo combinazioni casuali.
Come se le cellule, il DNA, gli ormoni non esistessero. Ah già! Questi prendono gli ormoni allo stesso modo delle vitamine e dei sali minerali: ti manca il magnesio, prendi l’integratore; ti manca il testosterone, prendi l’integratore, che, secondo loro, realizza il tuo desiderio di essere come “vuoi” essere, indipendentemente da come sei.
Hanno la stessa mentalità di quei cinesi (o giapponesi, non mi ricordo) che mettevano alle figlie scarpe piccole, convinti che una donna debba avere piedi piccoli (una fissazione) e non capivano come mai le mogli e le madri avessero i piedi storti.

Per affermare un principio, la fluidità di genere, in questo film hanno bloccato i generi tradizionali e li hanno vincolati ai ruoli che, tradizionalmente, svolgono in una parte della società di una cittadina del nord della Francia (mica dappertutto!). Di fatto hanno stabilito che quei ruoli sociali, quei modi di comportarsi, non sono il risultato di educazione; secondo gli sceneggiatori del film sono naturali.
Dunque, secondo loro, se una donna sputa per terra quando scava un fosso in giardino e non ama fare la mogliettina che aspetta a casa mentre il marito fa il ruffiano con gli elettori, è un uomo.

La signora diventata uomo, dopo essere stata accettata dal marito e dai figli, continua a fare la “brava mamma” e a essere “la moglie del sindaco”.  Non la chiameranno più “mamma” ma “genitore 1 o 2”, non la chiameranno più “moglie” ma “compagno” o “compagnu” (o compagnə): la sostanza cambia poco.
Il cambiamento di genere, in questo film, è diventato una malattia da cui si guarisce con gli ormoni (non potevano mancare i medici) e accettando qualche modifica del proprio aspetto. Il resto rimane come prima.
In fondo qual è l’ambizione di una donna che vuole affermare se stessa? Radersi con la lametta o con la macchinetta.

Anche il rapporto con i figli viene banalizzato.
La figlia dice la battuta più stupida di tutto il film: «Ho sempre desiderato essere l’unica donna della famiglia». Qualcuno avrebbe potuto aggiungere: «Per ora».

La moglie del sindaco non è una donna diventata uomo, è una donna che vuole essere se stessa ed è stufa di essere relegata nel ruolo in cui è stata costretta dalla nascita: la brava bambina, la brava figlia, la brava moglie, la brava madre.
Vuole essere un tipaccio, e ha ragione, ma questo non vuol dire diventare uomo. Si può essere un tipaccio, se si ha coraggio, anche da donna.
Se non fosse un brutto film si potrebbe immaginare un seguito: lei si rende conto del tranello in cui è caduta, denuncia il medico che le ha prescritto gli ormoni, riporta la situazione endocrina del sangue a quella che era prima della “cura” e, ritornata Edith, se ne parte per un giro del mondo insieme a un compagno meno noioso del sindaco.
Abbiamo capito che a Edith sessualmente piacciono gli uomini; forse voleva solo sfuggire a un ruolo e a un uomo insopportabile.

La cura ormonale che le fa crescere i baffi e la rende sempre più brutta è un esempio dei guai causati dai medici spregiudicati. Gli ormoni non hanno effetti solo sulla peluria e ci dev’essere un motivo se le ghiandole endocrine della signora, per gran parte della vita, si sono limitate a produrre determinate sostanze e non altre.
La medicalizzazione della vita, agevolata dalle varie forme di pubblicità palese e occulta, è uno dei problemi che affliggono attualmente il mondo occidentale. Pare che non si possa andare avanti senza avere sorbito la dose quotidiana di pillole a scopo curativo, preventivo e finalizzate al raggiungimento della bellezza, della salute, della longevità.
Poi vediamo questi campioni di bellezza, salute e longevità che sembrano maschere di carnevale viventi: capelli color asfalto, guance color mattone, occhi spalancati, sguardo perso.

Ciò che siamo, fisicamente, è stabilito dal DNA – la parte sessuale di ciò che siamo è determinata dai cromosomi xx o xy; ci sono alcune altre combinazioni, ma nella realtà non si realizzano tutte quelle che teoricamente sarebbero possibili.
Ciò che siamo, psicologicamente, è stabilito in parte dal DNA, soprattutto dalla società in cui viviamo, dall’educazione che abbiamo ricevuto, dalle esperienze che abbiamo vissuto e da noi stessi. Dobbiamo tutti decidere il nostro ruolo, senza farci incatenare negli stereotipi: il maschio condannato a fare il sindaco, la femmina condannata a fare la brava donna di casa.
Ma questo è un discorso entrato da tempo nella società; solo gli sceneggiatori del film (che geni!) non se ne sono accorti.

Gli stereotipi non hanno niente a che vedere con l’essere donna o uomo. Fino a che non potranno cambiare il suo DNA, Edith sarà fisicamente una donna; se preferisce comportarsi nel modo in cui, generalmente, nella sua città si comportano gli uomini, faccia pure. Sulla psicologia e sul ruolo nella società può influire senza sottoporsi a interventi chirurgici o iniezioni di ormoni; quando i medici spregiudicati potranno cambiare il DNA a richiesta, se li lascerà fare diventerà un’altra persona.