9 dicembre 2024 h 17.30
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto
Napoli e dintorni
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“Criature”, regia di Cécile Allegra.
Napoli in grande spolvero, soprattutto al cinema. Almeno quattro film interessanti.
“Iddu”, regia di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. Racconta a modo suo la latitanza di Matteo Messina Denaro. In un noir pieno di misteri un po’ scontati e svolte oscure rimane nella memoria il personaggio del preside napoletano interpretato da Toni Servillo. Esce dal carcere, scopre di essere rovinato, decide, per salvarsi, di tradire il capo mafioso nascosto al mondo come un monaco di clausura attirandolo in una trappola di pizzini intellettuali.
“Napoli New York”, regia di Gabriele Salvatores; la scenografia raggiunge i fasti del musical.
“Hey, Joe”, regia di Claudio Giovannesi.
Gli ultimi due film traggono ispirazione da un dramma mai superato dalla popolazione napoletana. Nel primo dopoguerra, durante l’occupazione degli americani, molte donne furono vittime di violenza. La violenza si presentò in due forme diverse.
Alcune furono costrette dalla miseria a prostituirsi: dovettero sopportare le voglie dei conquistatori sui poveri corpi malnutriti.
Altre coltivarono un sogno impossibile (eppure in qualche caso si realizzò): farsi portare via da un principe azzurro in un paese dove tutto appariva fuori misura agli occhi della povera gente che riusciva ad arrivarci dopo un viaggio strapazzoso. Erano enormi le strade piene di passanti variopinti, erano enormi le sale cinematografiche dove si proiettavano i film hollywoodiani e “Paisà” di Rossellini; era enorme la Statua della Libertà: alla bambina sembrava una gigantesca Madonna di Pompei alla quale rivolgersi con le mani giunte per chiedere la grazia: «Fammi trovare mia sorella!».
Il risultato del sogno fu, per molte donne, il precipitare in una situazione ancora più disperata. L’esserino concepito per ignoranza, per un gesto di amore o per alimentare la speranza finì nella massa dei diseredati costretti ad arrangiarsi per sopravvivere.
Dramma così potente da essere trasferito in una canzone che, nata dalla collaborazione tra un musicista e un poeta, divenne ben presto canzone popolare.
“Tammurriata nera” (E. A. Mario, Edoardo Nicolardi, 1944) si diffuse rapidamente, nonostante la povertà e la semplicità dei mass media di allora.
La canzone racconta le conseguenze di un probabile stupro (per un pezzo di pane o con la promessa di un sogno) mascherato dall’umorismo delle comari che fingono ingenuità per spettegolare.
“Tammurriata nera” fu ripresa con grande successo negli anni settanta dal maestro Roberto De Simone e dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.
«Iə nun capisch’é vvotə che succedə / e chellə ca sə vedə nun sə credə nun sə credə. / È natə nu criaturə, è natə nirə, / e ‘a mamma ó chiammə Cirə, sissignore, ó chiammə Cirə».
[A volte non mi spiego ciò che accade: quello che si vede è da non credersi. È nato un bambino nero e la mamma lo ha chiamato Ciro. Sì, proprio: lo ha chiamato Ciro].
Le comari si raccontano un fatto apparentemente inspiegabile, di cui tutti conoscono la spiegazione; fingono di porsi delle domande e di meravigliarsi, di non capire come sia potuto accadere.
Da qui le varie ipotesi divertenti, com’è tipico dell’umorismo napoletano; Eduardo De Filippo mostra in “Napoli milionaria” che si riusciva a ridere anche sotto i bombardamenti.
Alcuni Ciro con la pelle nera o bianca, ma ugualmente segnata, riuscirono a entrare insieme alle madri nella favola del principe azzurro, ma furono pochi. La maggior parte restarono con le madri abbandonate o furono abbandonati anche dalle madri. Molto presto dovettero imparare a muoversi nella giungla.
I due ultimi film citati sembrano diversi tra loro; in realtà sono uguali (a parte la forma): lo stesso dramma visto da prospettive diverse e in tempi diversi.
Poi c’è il film di Cécile Allegra con Marco D’Amore: “Criature”.
Mi aspettavo la realtà attuale.
Già il titolo mi era piaciuto: riprende una parola napoletana per indicare i bambini. Però, scritto così, sembra fatto apposta per confondere; infatti alcuni scrivono creatura, alcuni creature, alcuni, come nei titoli del film, criature.
La parola non è questa: la parola è “Criaturə”, con, alla fine, la vocale intermedia che pretende di essere segnalata. Non è /a/, non è /e/. È il suono vocalico caratteristico della lingua napoletana, /ə/, presente anche in altre lingue. Non ci vuole molto per imparare a pronunciarlo: si apre la bocca in posizione intermedia tra /a/ ed /e/ e si produce un suono vocalico. Come quando in francese si dice “je suis”, come quando in inglese si dice “a man”. È un’indicazione approssimativa ma aiuta. Aiuta a non rovinare la bella lingua napoletana.
In italiano creature possono essere anche gli adulti che hanno dei problemi, come nel titolo del film di Yorgos Lanthimos “Povere creature!”, che in inglese è “Poor Things” (povere anime, povere cose, povera gente!).
In napoletano solo i bambini sono “Criaturə”, creature di Dio, se esiste, e se non esiste non importa. Sono oggetti sacri davanti ai quali ci dovremmo mentalmente inginocchiare sempre, come i pastori e i re Magi “annanz ó bambəniellə”, davanti al bambinello, nella grotta o nella capanna.
Davanti ai bambini tutto il mondo si deve inginocchiare, tutti i viventi s’inginocchiano: le pecore, gli uccelli, il bue e l’asinello. Anche le viti (le piante) che nella pastorale di Alfonso Maria de’ Liguori «ciurettənə li vignə e nascettə l’uvə» (fecero sbocciare i fiori nelle vigne e nascere l’uva), contro tempo, il 25 dicembre.
Credevo che il film mostrasse i problemi e i pericoli che i bambini del sottoproletariato napoletano corrono per colpa dell’ambiente in cui vivono e, talvolta, per colpa degli stessi genitori e dei parenti.
Mi aspettavo un film neorealista aggiornato al 2024, con le dovute parentesi di realismo magico.
Un po’ di realismo magico c’è (francamente banale), ma di realtà ce n’è di più nel quasi musical di Salvatores e nella favola interpretata con grande passione da James Franco (“Hey, Joe”).
Sui titoli di coda ci informano che le vicende raccontate sono ispirate alla vita dell’educatore Giovanni Savino.
Confesso la mia ignoranza: non lo conosco. Qualunque cosa abbia fatto di buono, di cui è giusto rendergli merito, sono certo che viveva nella realtà. Sullo schermo la realtà deve diventare film. Il personaggio interpretato da Marco D’amore ha comportamenti poco realistici; se si muovesse in quel modo nel mondo reale durerebbe come un gatto in tangenziale: molto poco. Tra l’altro tocca troppo, abbraccia troppo i ragazzi, in un mondo dominato da diavoli appostati e pronti a inventare accuse per distruggere chi li contrasta. Addirittura i ragazzi fanno un bagno notturno in mutande e lui invita una ragazza a partecipare. Nella realtà sarebbero partite immediatamente le foto su internet e le denunce di chi odiava l’educatore e le sue iniziative.
La tesi del film è che i camorristi e le famiglie non vogliono che i ragazzi seguano un corso alternativo gestito dal professore (corso di letture, di preparazione all’esame di licenza media e di clownerie), un corso malamente sopportato dalla scuola, rappresentata da un preside burocratico come veramente ce ne sono. I padri e le madri hanno bisogno del contributo dei ragazzi al bilancio famigliare (attività poco qualificate, sfruttamento in nero), i clan li utilizzano nella manovalanza dello spaccio, i capi vogliono che i figli prendano le redini delle loro attività delinquenziali.
Il maestro riesce ad attirare i ragazzi con un corso di giocoleria, facendo scoprire loro la bellezza della lettura (solo “Il barone rampante” di Italo Calvino viene ripetutamente citato) e promettendo l’ambito conseguimento del diploma di licenza media.
Secondo me i clan camorristici si occupano di cose molto più pesanti di un corso che riesce a sottrarre alla strada quattro o cinque ragazzi. Credo che il capo clan fosse orgoglioso di quel figlio così forte e deciso e che il figlio fosse orgoglioso del potere del padre, potere e fama che utilizza per salvare un ragazzino picchiato da piccoli delinquenti. Già lo vedo, il figlio del boss, sostituire il padre, diventare un padrino che gestisce le sue attività con mano (e voce) ferma e in più sa fare esercizi ginnici di giocoleria. Forse maschererà un po’ dei proventi illeciti con le attività di un circo equestre.
A un certo punto il problema sembra essere la festa con i carri. Secondo me ai camorristi poco importa della competizione tra i carri; non sprecano minacce e violenza solo per impedire a un gruppo di partecipare alla sfilata. Hanno i mezzi per fare i carri più belli e per deviare come vogliono il percorso della processione.
Dopo l’uccisione che interrompe la festa non si vede un’ambulanza, una macchina della polizia. Si forma un corteo spontaneo e, naturalmente, “simbolico”; Marco D’Amore in testa al corteo (per andare dove?) con in braccio il ragazzo ucciso. Per forza. Il realismo magico vuole la sua parte.