12 dicembre 2024
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Animal House, regia di John Landis.
“Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade”. In una serata invernale si ha voglia di restare a casa, al caldo buono, di farsi due risate guardando un film di quando eravamo giovani (mi riferisco, ovviamente, ai vecchietti o boomer come me).
Nel 1978 – quando uscì nelle sale “National Lampoon’s Animal House” – John Belushi (nato nel 1949) aveva 29 anni, John Landis un anno di meno.
Belushi era già famoso per i suoi sketch demenziali al Saturday Night Live.
Sulla scia del successo di Animal House, due anni dopo i due coinvolsero Dan Aykroyd, un po’ più giovane (nato nel 1952), in un capolavoro a cui parteciparono miti della musica rock e afroamericana.
The Blues Brothers (1980) è stato un film importante per molte generazioni.
Ci ha fatto frequentare la commedia demenziale (i capolavori dei fratelli Marx erano cult, ma si vedevano solo in Fuori orario di Enrico Ghezzi); ci ha fatto amare il Rhythm&Blues; ha influenzato, per un periodo, il nostro modo di vestirci, persino di camminare, e il modello di occhiali che sceglievamo dall’ottico.
Quando partivo da Trento in macchina, insieme ad altri emigrati dal sud, per tornare a casa, o da casa per tornare a Trento, sempre qualcuno diceva: «Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio e portiamo gli occhiali da sole: vai!». Era vero solo il pieno del serbatoio e, soprattutto, la cinquecento non era paragonabile alla bluesmobile, ma ci dava allegria cominciare il viaggio con questa citazione.
Per giustificare il ritardo a un appuntamento ripetevamo l’elenco delle disgrazie che Jake usa con la ragazza armata di kalashnikov: «Sono rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavallette. Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!».
The Blues Brothers è stato una “pietra emiliana” (copyright Totò per “pietra miliare”) nella nostra formazione culturale; non esagero, dal momento che cultura è lo sguardo sulla vita, non è solo libri letti, esami dati o titoli accademici conseguiti.
In ogni scena i due film trasmettono l’allegria giovanile del regista e degli attori.
La caratteristica principale di Animal House è la trasgressione rispetto alla società americana degli anni sessanta in cui il film è ambientato (1962).
La trasgressione non fu ostacolo alla distribuzione negli Stati Uniti e in Europa (solo qualche scena fu censurata): nel 1978, quando il film uscì nelle sale, la società occidentale aveva metabolizzato il sessantotto.
La libertà, per ogni forma di arte, è fondamentale. Niente libertà, niente arte. Niente arte, niente prodotti artistici.
Il mondo capitalista aveva capito che un film trasgressivo, ma geniale, può essere un buon affare. Se non fosse un cult ma un film attuale, sarebbe coperto di contumelie e tacciato dei peggiori delitti. È un cult, e quindi inattaccabile (almeno per ora).
I combattenti a tempo pieno contro il consumismo e lo spreco di risorse alimentari, confondendo la finzione con la realtà, giudicherebbero inappropriata la “battaglia del cibo” nel self-service del college e l’accumulo di panini, di dolci e di qualunque cosa commestibile sul vassoio e fuori del vassoio (anche nelle tasche) di Bluto Blutarsky, il vorace personaggio interpretato da John Belushi, che arriva a ingoiare un panino intero, a mangiare una pallina da golf e a svuotare in un sorso solo una bottiglia di whisky (poi dice: «Grazie! Ne avevo proprio bisogno»).
Lo spionaggio a cui Bluto sottopone le ragazze del college nei loro momenti personali e nelle parti intime non sarebbe visto con divertimento; in generale l’atteggiamento degli uomini nei confronti delle donne sarebbe condannato senza appello.
Nel film le ragazze fanno la figura di ochette insipide. Barbara (Babs) ha una collezione di peluche nella stanza da letto; Mandy, la ragazza di Gregory (Greg), uno dei “signorini”, passa le serate in macchina cercando di eccitare il fidanzato: la mano di lei, protetta da un guanto usa e getta, si stanca, ma Greg proprio non ce la fa a concentrarsi. Quando i due si incontrano si scambiano un bacio casto sulla guancia, per non guastare i capelli vaporosi di lei. Un rapporto simile tra un uomo e una donna della buona società americana è descritto in un altro capolavoro di quegli anni: Frankenstein Junior (Mel Brooks, 1974).
Non solo le femmine, anche i maschi, in un modo o nell’altro, sembrano scemi.
Il film è una presa in giro generale, di tutti: i ragazzi, le ragazze, gli adulti, i vecchi. Mancano solo i bambini.
Alle proteste del mondo progressista si sommerebbero le proteste del mondo conservatore, offeso dalla presa per i fondelli dei militari.
Doug Neidermeyer, comandante dei militari della riserva (indossano la divisa e giocano con i fucili), è un anticipo divertente del sergente Hartman che in Full Metal Jacket (Stanley Kubrick, 1987) perseguita “Palla di lardo” fino a indurlo alla disperazione e alla pazzia. Doug Neidermeyer se la prende con il dolce e remissivo Kent Dorfman, detto Flounder (sogliola). Però Flounder ha due amici che sanno giocare a golf e uno dei due ha una buona mira. Risultato: la situazione, drammatica nel film di Stanley Kubrick, è comica nel film di John Landis.
Nel 1964 fu avviata la cosiddetta “escalation” dell’impegno militare americano in Vietnam; nel 1978, quando il film uscì nelle sale, l’impresa si era conclusa con gravi perdite (1975: ritiro degli americani da Saigon).
La data, 1962, che si legge all’inizio del film, così ridicolmente precisa in una storia sconclusionata, significa: l’impegno politico del sessantotto è di la da venire, la guerra del Vietnam non è entrata nel pieno della tragedia; dunque possiamo scherzare sulla politica e sul militarismo.
Il film racconta giovani che pensano solo a divertirsi passando le serate tra musica, balli, fumo e birra. Sono allegramente presi in giro i “figli di papà” WASP (bianchi, anglosassoni e protestanti) e i giovani provenienti dalle classi meno abbienti, classi sociali che da poco avevano raggiunto un relativo benessere e potevano mandare i figli al college.
Se poi nella vita del college si ripropone la separazione tra i ricchi del club Omega e i poveri del club Delta, Bluto si riempie la bocca di cibo e sputa il contenuto in faccia agli altezzosi signorini.
Tutto è visto con gli occhi di poi (senza il senno) e con un’ombra di nostalgia: ah, le belle scazzottate di una volta!
Lo studio non faceva parte dei programmi di vita: la società americana offriva altri modi, non tutti legali, per raggiungere la ricchezza. Il college serviva solo a condividere privilegi, come il rinvio del servizio militare. Dopo un paio d’anni un’alternativa feroce si sarebbe presentata: bruciare la cartolina precetto (in “Hair” di Miloš Forman) o rovinarsi la vita nella giungla. Solo pochi, figli di politici potenti, riuscirono a uscire da questo dilemma tragico.
Non andrebbero a genio ai conservatori le scritte sui titoli di coda. Sono necrologi al contrario: raccontano che fine faranno i personaggi del film fermandoli in un fotogramma. Così conosciamo il presente e il futuro e tutto quell’agitarsi diventa ancora più comico e toglie spazio alla eventuale indignazione.
L’altezzoso Gregory entrerà nello staff di Nixon e sarà stuprato in carcere.
Il fanatico militarista Doug Neidermeyer sarà ucciso dai suoi stessi commilitoni in Vietnam.
Ambientando il film nel 1962, prima che l’escalation portasse la tragedia nella vita di tanti giovani americani, può passare questa battuta sull’ultimo fotogramma.
Quali reazioni susciterebbe oggi, sia a sinistra che a destra, la feroce presa in giro delle istituzioni democratiche?
Sui titoli di coda scopriamo che Bluto Blutarsky diventerà senatore e, effettivamente, per tutto il film dimostra determinazione, capacità di trascinare gli altri e attitudine a non rispettare le leggi vigenti.
Carmine DePasto, sindaco di Faber, la cittadina in cui è collocato il college, italoamericano di nome e di accento, rivolgendosi al rettore dell’università, dice: «Se tu pretendi di non dare un contributo al comune per la partecipazione alla parata, ti dovrò gambizzare».
Ci offendiamo? O ci facciamo una bella risata?
In questa battuta non c’è trasgressione, perché “Il padrino” e “Il padrino – parte II” erano già usciti (nel ‘72 e nel ‘74); quindi l’uguaglianza italoamericano = mafioso era già passata nell’immaginario collettivo.
Il professor Jennings (Donald Sutherland) dovrebbe spiegare il Paradiso Perduto di John Milton, ma lo considera un poema troppo lungo, ripetitivo e noioso (come dargli torto?); preferisce trascorrere le serate insieme ad alcuni studenti al lume delle candele in un ambiente fumoso.
Il professore insegna a uno studente come farsi uno spinello, poi, tranquillamente, va a letto con una studentessa che lo ammira. Alla fine la studentessa torna dal suo ragazzo; sui titoli di coda scopriamo che i due si sposeranno e dopo quattro anni divorzieranno. C’est la vie!
Scene e situazioni come questa in un film nuovo scatenerebbero una violenta campagna degli odiatori da tastiera, pronti a intervenire in qualunque causa in grado di convogliare odio nei confronti di chi ha talento; in questo caso: talento comico.
Il regista e gli attori volevano solo fare comicità demenziale, senza preoccuparsi della realtà. Ai problemi seri e alle tragedie del mondo pensiamo dopo il film: ogni tanto lasciateci ridere liberamente!
In alcune scene Animal House sembra un cartone animato. Il personaggio interpretato da John Belushi è uno spiritello dispettoso: si arrampica sui muri, salta dai tetti, si fa inseguire; non riescono mai a prenderlo, sguscia tra le mani degli inseguitori, compare in posti impensabili, cade, si rialza, come fosse elastico.
È un gioco.
Si vede che è un gioco da come rappresentano i neri, nei confronti dei quali non si può negare la simpatia e l’affetto di questo gruppo di pazzi scatenati.
In Animal House giocano con uno stereotipo: i neri sanno cantare e suonare, però guardano minacciosi i bianchi che hanno osato entrare nel loro locale; li costringono a scappare e si tengono le ragazze.
Per capire come la pensassero i nostri saltimbanchi riguardo alle destre fasciste basta la battuta mitica: «Io li odio i nazisti dell’Illinois», da The Blues Brothers. Anche questa battuta ci piaceva e ci piace ripetere.
John Belushi sapeva far ridere senza parlare, solo muovendo il sopracciglio, come i grandi del cinema muto.
In una scena molto divertente il chitarrista romantico intona una canzone noiosa. Bluto ci lancia attraverso lo schermo uno sguardo complice, si rivolge proprio a noi. Muove il sopracciglio e fa ciò che ci piacerebbe fare in una situazione simile: gli strappa la chitarra dalle mani e la spacca contro il muro. Poi dice: «Scusa».
Chi sta per alzare l’indice accusatore si tranquillizzi: era una chitarra finta, da quattro soldi; nessuna chitarra è stata maltrattata.
È un film: non vuole insegnarci nulla, non vuole lanciare messaggi.
Anche la famosa regola («Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare») è solo un calembour divertente. Nulla di più.