20 maggio 2020
Schermo televisivo
Film dei registi: // La terra dell’abbastanza // Favolacce // America Latina // Dostoevskij //
Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
// Doppia Pelle [Le Daim] // BlackBerry (thriller tecnologico) // Club Zero (horror alimentare) // Come pecore in mezzo ai lupi // Sanctuary (thriller psicologico) // Beau ha paura [Beau is afraid] // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Preparativi per stare insieme … (thriller psicologico) // L’ultima notte di Amore (noir metropolitano) // Holy Spider // M3GAN (thriller distopico) // Bones and All (horror cannibale) // Nido di vipere // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // La fiera delle illusioni // America Latina // Raw (horror cannibale) // Titane // Il sospetto [Jagten] // Favolacce // Notorious! (thriller H.) // Parasite // Il signor diavolo // The dead don’t die (gli zombie sono tornati) // Border: creature di confine // La casa di Jack // Gli uccelli [The birds] (horror H.) // L’albero del vicino //
Famiglia (genitori e figli)
// Il tempo che ci vuole // Dostoevskij // Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw // Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
I film di Damiano e Fabio D’Innocenzo (regia e sceneggiatura).
1) “La terra dell’abbastanza” (2018) (commento precedente);
2) “Favolacce” (2020);
3) … … …
Eravamo in piena pandemia; le sale cinematografiche erano state chiuse, poi riaperte, poi di nuovo chiuse. Non avendo certezze riguardo alla durata dell’incubo, nel 2020 i produttori e i registi di Favolacce decisero di mandarlo in prima visione in streaming. Non so se il film sia mai stato distribuito nelle sale; dopo la fine dell’incubo pandemia sarei corso al cinema se ci fosse stata la possibilità di vederlo nel luogo naturale. Tra l’altro, alcuni campi lunghi, alternati ai primi piani ravvicinati, richiedono il grande schermo per consentire la visione contemporanea dell’ambiente esterno (i due giardini davanti alle case) e di ciò che accade in un angolo. Mi riferisco, in particolare, alla lunga sequenza del quasi soffocamento del bambino.
Nonostante alcuni difetti, a me sembra che La terra dell’abbastanza e Favolacce, insieme a Bassifondi (di cui i due sono sceneggiatori), siano i film meglio riusciti dei fratelli D’Innocenzo. Confermo l’opinione dopo avere visto al cinema Dostoevskij, che commenterò per ultimo. Attualmente Favolacce si trova su Raiplay.
Protagonista corale del film è un gruppo di persone, tre famiglie più qualcun altro, che vivono in un quartiere periferico di Roma (Spinaceto) e hanno una vita squallida.
Non sono poveri, ma neanche ricchi. Dal punto di vista economico se la cavano, anche se, come tutti, vorrebbero un lavoro meglio retribuito, più soldi a disposizione. Il problema non è questo. Il problema è culturale.
Dal punto di vista intellettuale vivono come bestie, ragionano con la pancia. Si dice che l’intestino sia il secondo cervello. Per questi adulti è il primo.
Casette a schiera, due piani, al primo piano le stanze da letto, la stanza dei bambini; scala interna, ampio ingresso, piccolo giardino. A Spinaceto pare non ci sia il tipico agglomerato urbano asfissiato dalle macchine, dall’asfalto, dal cemento; si vedono larghi spazi, alberi, campagna.
D’estate nel giardino, lunghi distesi nelle sedie a sdraio, gli adulti prendono il sole quando non vanno al mare a sdraiarsi sul materassino. Montano la piscina prefabbricata, di plastica, davanti casa; nella piscina si bagnano gli adulti, i loro bambini e i bambini del vicinato: «Ringrazia zio Bruno». I vicini, che si sono sperticati in finti ringraziamenti, bofonchiano per la rabbia; i proprietari della piscina è come se dicessero: «Aho! So mejo de te!».
Alla fine la bucano loro stessi, di nascosto, di notte, per togliersi il fastidio e gli occhi di dosso; il giorno dopo scaricano la responsabilità sugli zingari.
Fotografie col cellulare, giri in auto, festicciole in famiglia, scambi di regali, gavettoni per festeggiare l’inizio delle vacanze estive, scampagnate, compiti per le vacanze, ritorno a scuola.
I rapporti tra gli adulti sono fondati sull’odio reciproco, mascherato da chiacchiere, dichiarazioni di amicizia, di affetto, da melensaggini finte; chi le produce è il primo a non crederci. Proprio non si sopportano, si odiano in modo viscerale. Ciononostante continuano a frequentarsi, a cercare occasioni per stare a contatto. Ciascuno vorrebbe prevalere sugli altri, affermarsi, distinguersi. Non ci riesce: vive una frustrazione continua che si esprime sul volto, sempre teso.
Non sorridono, qualche volta scoppiano in una risata di scherno, aggressiva come un pugno in faccia, o in una risata finta, ancora più violenta perché ipocrita.
Le facce, compresa la faccia di Elio Germano, grande trasformista, ricordano i sottoproletari dei film di Pasolini, ma i personaggi non sono affamati, desiderosi di tutto e ingenui nel rapporto con i beni di consumo; si sono sfamati, hanno raggiunto le comodità, un relativo benessere, da una o due generazioni.
Sono i figli e i nipoti dei personaggi di Pasolini; si sono intrufolati nel pubblico impiego, nei servizi, e considerano un diritto l’inefficienza, la pigrizia. Se lavorano in un ufficio si portano a casa i fogli della stampante, le penne, le gomme per cancellare (non c’è nel film ma mi sembra coerente con questi tipi umani).
Sono arrabbiati, insoddisfatti, nonostante abbiano abbastanza soldi, la casa, un lavoro, la macchina, abbondanza di cibo.
Se non lavorano, come il personaggio interpretato da Elio Germano, attendono una sistemazione migliore, senza darsi troppo da fare per trovarla. Intanto la famiglia va avanti con lo stipendio della moglie, che può dare cento euro ai figli – «andate al cinema, mangiate i popcorn» – quando vuole toglierseli di torno per controllare che cosa stanno combinando.
Disperati, bloccati nella loro condizione, si sentono perdenti.
Utilizzano i figli per mostrare agli altri un futuro da vincitori. Non sanno se si realizzerà, lo sperano, ma non sono sicuri. Vorrebbero determinare il destino dei figli: impresa ardua.
Nel corso della cena il vicino si vanta di avere «lavorato in prima persona» (espressione che gli piace) alla realizzazione di un prodotto schiumogeno; afferma di svolgere un lavoro «interessante come attività» (un’altra espressione che gli piace). Dice: «se hai un lavoro devi sempre cercare di raggiungere la vetta» (si vede sulla cima della montagna con la bandierina). Rivolge una domanda retorica ai commensali: «Vuoi continuare per il resto della vita a vendere acqua zuccherata o vuoi avere la possibilità di cambiare il mondo?».
È come dire: voi vendete acqua zuccherata, io cambio il mondo, ma è anche una dimostrazione di come il personaggio si sopravvaluti. La frase è attribuita a Steve Jobs, che l’avrebbe utilizzata per convincere il dirigente della Pepsi Cola John Sculley a passare alla Apple (in seguito Sculley mise in minoranza Jobs e lo costrinse a uscire dall’azienda che aveva fondato).
Sembra di vederlo il personaggio: legge la frase attribuita a Steve Jobs (ma forse è una leggenda) su una rivista di prodotti schiumogeni (qualunque cosa significhi) e decide: la ripeterò durante la cena, in un momento di massima attenzione, senza citare il supposto autore, perché, altrimenti, capiranno che l’ho copiata.
Il padrone di casa segue il discorso con uno sguardo torvo: è rivolto a lui, che non ha un lavoro e vive con lo stipendio della moglie. Per reagire e risollevarsi chiama i figli a leggere le pagelline con tutti dieci, sapendo che la figlia del vicino non parla mai, non va bene a scuola, è seguita da un insegnante di sostegno che, secondo il padre, è un cretino perché «tratta la bambina come handicappata». Guarda l’unica figlia con aria delusa: su di lei non potrà fondare la sua speranza di scavalcare gli altri, non potrà utilizzarla per mostrare un futuro da vincitore.
Scambi di colpi nel corso di una tavolata che sembra un campo di battaglia.
I figli devono essere uguali ai genitori, soprattutto i maschi devono essere uguali ai padri. Le femmine basta che siano remissive, come le madri, che non contraddicono mai i mariti.
Grande esultanza per ogni segno di somiglianza del figlio al padre: «Evviva! è maschio; è aggressivo; è uguale a me; ha imparato a guidare il pick-up; ha avuto un rapporto sessuale con la ragazzina e mi ha guardato con aria furba, da uomo; è pronto a trattare le donne come una discarica». Grandi problemi se i figli, soprattutto i maschi, mostrano di avere compreso la falsità di fondo dei rapporti famigliari: «Come ti sei permesso di chiedere se il rapporto tra me e tua madre va bene?».
I bambini vivono in un mondo a parte, guardano gli adulti con curiosità, li subiscono, a volte li scimmiottano, come, per esempio, quando due di loro, undicenni o giù di lì, decidono che è arrivato il momento di fare l’amore; poi si rendono conto della difficoltà della cosa.
Chi non ha visto il film e non ama le anticipazioni sulla trama non prosegua nella lettura e vada prima a vedere il film su Raiplay.
Un professore con la faccia e l’atteggiamento da sfigato insegna ai bambini a costruire una bomba amatoriale. Meglio non essere geni, dice, perché i geni hanno la vita dura; non riflette sulla sua vita, squallida, dura, senza la soddisfazione di essere un genio.
Tutti i bambini preparano la bomba e la tengono nella loro cameretta (pare sia facile: un po’ di fili elettrici, qualche tubo, una lampadina, ed è fatta). Qui siamo passati dall’iperrealismo al surrealismo. Il salto di stile e di genere si nota ed è fastidioso. A me piaceva lo squallore senza soluzione della rappresentazione. La morte, a suo modo, è una soluzione.
I bambini vogliono far scoppiare la bomba perché, dice uno di loro, «così finisce tutto».
Non hanno tutti i torti, specialmente il figlio di quello che parla in continuazione e mastica le costine di vitello con soddisfazione. Con quei genitori è difficile non desiderare che finisca tutto.
Voce fuori campo (di Max Tortora): «Quanto segue è ispirato a una storia vera / La storia vera è ispirata a una storia falsa / La storia falsa non è molto ispirata».
Forse è questo il punto dolente del film: la rivisitazione di una storia vera con una storia falsa non molto ispirata. I personaggi, l’ambiente, sono veri: li possiamo incontrare o li abbiamo incontrati, anche se non avevano l’accento romanesco o, se l’avevano, non abitavano a Spinaceto. La trama ha un punto di rottura: la chiusura di morte si sarebbe potuta avviare in altri modi, più plausibili; non erano necessari una bomba, un professore vendicativo, un antiparassitario conservato in garage: il mostro esterno. La mostruosità è tutta interna a quell’ambiente, la morte è una bomba che non ha bisogno di inneschi per esplodere, è un veleno che non ha bisogno di un professore folle.
Si suicidano i due bambini delle pagelline e la ragazzina che ha dovuto tagliare i capelli. Solo un ragazzino si salva, il più misterioso, il figlio di quello delle costine di vitello, condotto dal padre dalla periferia al centro di Roma, ospite di uno zio, lontano da quel posto avvelenato da un’aria di morte, di dissoluzione. Anche la natura – certamente è una mia impressione, ma credo sia un segno della potenza suggestiva di questo film – sembra in disfacimento.
La bomba che il ragazzo provava a costruire diventa motivo di orgoglio per il padre; sogna per lui un futuro «nella Nasa italiana». Resta una domanda drammatica: l’aggressività compressa dentro quel ragazzino che assorbe tutto senza ribellarsi in che cosa sfocerà? Quali incubi reali produrrà il mondo finto in cui il padre lo costringe a vivere?
Due mondi separati sono presenti in questo film: adulti e bambini. Finto il primo, immersi entrambi in un’atmosfera di morte che trova la giusta conclusione nella colonna sonora finale: la magnifica Passacaglia della vita (Homo fugit velut umbra – XVII secolo).
Non posso concludere senza sottolineare la bravura di Elio Germano: la sequenza in cui scopre i figli morti, rimane intontito, torna a letto, aspetta che li scopra la madre, è da manuale di grande cinema (Hitchcock). Si svolge tutta nella testa dello spettatore, attraverso gli occhi, l’espressione di Elio Germano. Dalla nostra poltrona vediamo di sfuggita i ragazzi morti, ma oramai siamo il personaggio interpretato dal grande attore, ripreso dai due bravi registi.