5 marzo 2023 h 17.10
Cinema Spazio Alfieri Firenze – via dell’Ulivo, 6

Religioni e/o superstizioni
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Non tutto torna in questo film che vuole essere provocatorio (è il chiodo fisso del regista Paul Verhoeven).
Per essere provocatorio devi stare attento: se mostri assurdità non sei provocatorio, diventi triviale e lo spettatore si distrae, smette di seguirti.

Un giocattolo sessuale di legno per donne, secondo il mio modesto parere, è troppo ruvido, soprattutto se intagliato frettolosamente in una statuetta da una ragazza, Bartolomea, che vorrebbe “entrare con la mano” nell’apparato genitale di un’altra ragazza, Benedetta, ma non riesce.
Perché non ha provato con un dito? A meno che volesse fare un esame endoscopico manuale della vagina di Benedetta.
Non ho esperienza riguardo ai giocattoli sessuali, però, a intuito, credo siano fatti di materiale elastico. Una statuetta di legno ruvido che penetra nella vagina, più che eccitazione, provoca fastidio e potrebbe causare lacerazioni. È un’opinione. Se una donna mi smentisce accetto l’obiezione, perché la mia esperienza è limitata. Ho conosciuto membrane, nella zona genitale femminile, delicate e sensibili.

Le ferite alle mani, al costato, ai piedi, poi alla fronte, poi di nuovo alle mani, che Benedetta vorrebbe far passare per stimmate – il regista lascia il dubbio fino alla fine – sono profonde. Lo afferma il medico (una donna) che le esamina e osserva: «Per quanto pulisca, riprendono a sanguinare». Lo dice anche il prevosto che le guarda attraverso una specie di lente di ingrandimento. Sono profonde, eppure guariscono presto, troppo presto. Nell’ultima sequenza vediamo il corpo nudo di Benedetta privo di tracce; non ci sono segni sulle mani, che perdevano sangue il giorno prima, dopo che le due ragazze hanno dormito all’aperto, sulla paglia. Forse si è tagliata da sola con un vetro. Come ha fatto a guarire così presto? È un film, d’accordo! Ma ci vuole un po’ di coerenza. Dobbiamo credere a ciò che vediamo sullo schermo: il regista ci deve dare l’illusione della realtà, anche quando ci fa vedere cose assurde.
Forse sarebbe bastato allungare i tempi, mettere la scritta: “Sono passati due mesi”, mostrare le mani di Benedetta ancora coperte con una benda nell’ultima sequenza … . Il regista avrebbe potuto trovare altre soluzioni, volendo.

La ex madre superiore, suor Felicita, dopo essere stata sostituita, ha praticato un buco nel muro della stanza per spiare Benedetta. Si tratta di un muro spesso di pietra.
Com’è riuscita a portare a termine il lavoro? Sarebbe occorso un trapano e non avrebbe potuto evitare di fare rumore, di farsi scoprire. Bucare un muro richiede forza, non è lavoro da badessa di convento toscano del XVII secolo.

Con quali argomenti Benedetta è riuscita a convincere suor Felicita, che la odia e l’ha denunciata dopo la morte della figlia, a presentarsi in veste di “immagine della morte” per impaurire i paesani e spingerli a ribellarsi al nunzio pontificio? Le cose stavano andando come la ex badessa del convento voleva – tranne il particolare di essersi ammalata di peste. Suor Felicita si è adoperata perché Benedetta fosse condannata al rogo. Per quale motivo l’ha aiutata a venirne fuori?

Benedetta e Bartolomea scoprono la reciproca attrazione fisica nella cella, quando Benedetta aiuta Bartolomea a lavarsi. Poi si spostano nella latrina, dove Bartolomea evacua rumorosamente e con soddisfazione. Anche in quel luogo, subito dopo l’operazione, è evidente la forte attrazione sessuale tra le due ragazze.
Si trovano in una latrina comune, priva di scarico, probabilmente puzzolente. Bartolomea si è pulita in modo approssimativo utilizzando foglie secche.
Non capisco tutta questa attrazione in un posto che, secondo me, invita solo a fuggire. Credo che sesso e merda non vadano d’accordo, ma è solo l’opinione di uno abituato a condizioni igieniche sconosciute nella campagna toscana del XVII secolo. Probabilmente Bartolomea era abituata a dormire con le capre. Ma Benedetta?

Sono dettagli, è lo sfizio di trovare il pelo nell’uovo.
Secondo me i dettagli sono fondamentali, non solo nel cinema.

Il regista Paul Verhoeven, amante delle provocazioni basate soprattutto sul sesso, in questo film arriva a rappresentare un rapporto tra Cristo in croce e la protagonista.
Si tratta di un sogno di Benedetta. Cristo è appeso alla croce, come di consueto, e coperto di piaghe. Dice alla ragazza: «Spogliati, sei la mia sposa». Lei si denuda, si avvicina alla croce.
Cristo le dice: «Togli tutto ciò che ci separa»; Benedetta scioglie il panno che solitamente avvolge il bacino di Cristo.
Effettivamente, solo quel panno li separava.
Non appare un organo maschile in erezione. Il Cristo sognato dalla ragazza omosessuale, per quanto fornito di barba regolamentare, visto dalla zona pubica è una donna o un eunuco.
Nelle rappresentazioni dell’assunzione in cielo della Madonna, inscenate nel convento alla presenza dei familiari delle monache in visita, il personaggio maschile nell’alto dei cieli (il Cristo – Dio) ha la barba lunga, ma è interpretato da una donna. In queste rappresentazioni Benedetta, miracolata alla nascita e fornita dal padre di una ricca dote per entrare in convento, interpretava, con molta immedesimazione, la Madonna.
Dunque: nel sogno Gesù Cristo in croce chiede a Benedetta: «Posa le tue mani sulle mie»; la ragazza si protende verso la croce, appoggia le mani sulle mani inchiodate di Cristo e avverte un brivido di piacere o di dolore (nell’estasi il piacere e il dolore si confondono). Poi si sveglia. Ha le stimmate. Si è ferita da sola? È un’imbrogliona? Non si sa, fino alla fine.

Qui occorre aprire una parentesi.
Sono orgoglioso, pur non essendo cattolico osservante (sono agnostico), di appartenere a una cultura arrivata ad accettare la provocazione estrema nei confronti dei simboli della propria fede.
Se in un film un regista si fosse permesso di rappresentare un atto sessuale compiuto da Maometto, sarebbe immediatamente partita una fatva (nel senso ristretto di condanna a morte) e io non avrei potuto commentare il film: alcune bestie feroci si sarebbero sacrificate, stupidamente, per punire gli spettatori blasfemi. Per molto meno i fanatici musulmani hanno colpito i giornalisti e i fumettari di Charlie Hebdo.
Je suis Charlie Hebdo. Je suis Georges Wolinsky, il fumettista ucciso il 7 gennaio 2015, insieme a undici persone, nella redazione del suo giornale, da un gruppo di coglioni.
Ora fanno bene i superstiti a continuare nelle provocazioni; dobbiamo affermare che la libertà di satira è un valore, e se non va d’accordo con le vostre superstizioni vi è consentito un solo modo di reagire: non comprate il giornale.
Ecco perché non possiamo non dirci cristiani: perché il cristianesimo è arrivato a tollerare chi non è cristiano, ad accettare che possa esprimersi liberamente.
È un progresso recente: L’ultima tentazione di Cristo, di Martin Scorsese, fu sottoposto a minacce in America, sebbene non paragonabili alle fatva.
Finché criticano va tutto bene. Le minacce non sono consentite in uno stato laico.
Questo film provocatorio sta passando nelle sale senza stupide proteste dei bigotti e dei fanatici. È una grande cosa, che ci rende orgogliosi: non credenti ma orgogliosi di una cultura che, nonostante difficoltà e contraddizioni, riesce a fare passi avanti nella civiltà, mentre altri annegano nel fanatismo e opprimono gli uomini e, soprattutto, le donne con le loro superstizioni.
Nei tempi in cui si svolge la vicenda raccontata nel film (XVII secolo) non era così: il nunzio pontificio poteva usare mezzi di tortura orribili per estorcere una confessione, senza porsi scrupoli religiosi (che non gli appartenevano) o morali.

Benedetta ha una grande capacità di influenzare se stessa e gli altri.
Chi non crede alla sua santità? Quelli che non credono ai santi, ai miracoli, al Cristo e a tutto il resto, non hanno la fede e sono lì solo per convenienza: la madre superiore, il nunzio pontificio che corre da Firenze a Pescia, in tempo di peste, per smascherarla.
Il prevosto locale (grado superiore a quello del semplice prete) è invogliato a crederle perché sa che la presenza di una santa nella diocesi può aprirgli la strada per il vescovado.

Potremmo vedere il film come la storia di una ragazza che, nella Toscana del 1600, sfrutta per crescere ciò che passa il convento.
Che cosa le passa il convento? – Una vita comoda e protetta in un mondo pericoloso (il potere poggia sulle armi e può improvvisamente passare di mano); – una educazione scolastica (Benedetta sa leggere, scrivere e far di conto); – una serie infinita di racconti fantastici di santi, miracoli, madonne, racconti impressionanti di serpenti tentatori, di gesucristi guerrieri, belli, forti, che la difendono con la spada dai diavoli.
La ragazza è spinta dalla sua fantasia a immedesimarsi nei racconti, a credere alle sacre rappresentazioni, nelle quali svolge un ruolo importante. Viene a contatto con una ragazza del popolo, Bartolomea, che ha una esperienza rozza del proprio corpo, ma ne ha esperienza, anche se ha dovuto subire la violenza dei maschi di casa.
È naturale che Bartolomea, che si è liberata da maschi violenti, sia attratta da Benedetta, e Benedetta, oppressa dai tabù conventuali, sia attratta da Bartolomea. Entrambe non hanno esperienza di un rapporto dolce con l’altro sesso.
Bartolomea ha vissuto la bestialità dei maschi («per mio padre se fossi stata una capra sarebbe stato lo stesso»). Benedetta conosce solo figure astratte di maschi: il padre, le statue del Cristo, i cavalieri beffardi e violenti. Dal contatto con Bartolomea conosce la sofferenza e la gioia del corpo.
La sofferenza. Quando la madre superiore le chiede per quale motivo ha costretto Bartolomea a immergere la mano nell’acqua bollente lei dice: «Io non so che cosa sia la sofferenza».
La gioia del corpo. Guarda con curiosità i propri seni in uno specchio improvvisato e riesce a smantellare il principio che hanno cercato di inculcarle nel cervello fin da quando è entrata in convento: il corpo è il tuo peggiore nemico.
Scopre che il corpo non è nemico, ma può essere fonte di piacere; riesce a mettere insieme la nuova scoperta con le esperienze precedenti: Dio non vuole sofferenza, vuole gioia.

Grazie all’amore Benedetta cresce e si convince di essere la prescelta. Come tale può imbrogliare i popolani ingenui e i potenti che si credono furbi. Le sue azioni sono volute da Dio; dunque le stimmate false sono vere, la sua presenza allontana la peste, il suo corpo non sarà lambito dalle fiamme.

Riferendosi alla storia da cui il regista ha tratto il film, colpisce l’informazione che appare sullo schermo prima dei titoli di coda: Benedetta Carlini visse in quel convento fino ai settant’anni. Dunque ci fu un processo e lei sfuggì al rogo: caso raro.

Particolarmente belle e ben costruite sono le scene di massa: la peste a Firenze, con i morti per strada, le processioni; la rivolta della popolazione inferocita, convinta che la santa, condannata al rogo, avrebbe allontanato la peste da Pescia.
Il film è tratto da un saggio su fatti accaduti in Toscana nel XVII secolo: Atti impuri – Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento di Judith C. Brown.
Sarebbe saggio leggerlo per capire quanto Paul Verhoeven abbia deformato il racconto della studiosa nel trasformarlo in un film. Interessa? Fino a un certo punto. Sarebbe saggio, ma se ne può fare a meno. Il film è una cosa, il libro un’altra.

In ogni commento mi domando se il film cattura lo spettatore (mi sembra fondamentale).
A mio giudizio non lo cattura, un po’ per la presenza di alcune assurdità (se ci accorgiamo delle assurdità vuol dire che non ci ha catturati), un po’ perché le provocazioni volute stancano.
Chapeau alla grande Charlotte Rampling, che riesce a disegnare il personaggio della badessa con poche parole, quasi unicamente con gli sguardi e con il volto, a settantasette anni, bellissimo. Il regista utilizza molto il primo piano. Il campo lungo è riservato al paesaggio della campagna toscana che chiude magnificamente il film.