12 gennaio 2024 h 17.30
Cinema Fiamma Firenze – via Antonio Pacinotti, 13

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Vedrei qualunque film con Maggie Smith.
L’imprinting è stata l’interpretazione di un personaggio della miniserie inglese David Copperfield in due puntate.
La serie era stata trasmessa nel 1999 dalla BBC; la trovai su videocassette. Aveva tra gli interpreti, nella parte di David bambino, Daniel Radcliffe: dopo un po’ sarebbe diventato Harry Potter.
Maggie Smith era Betsey Trotwood, la zia burbera e benefica di David.
Da allora per me Betsey Trotwood è Maggie Smith. Mi sembra di averla conosciuta o immaginata molto prima di vedere la serie. Ho la sensazione, quasi il ricordo, di zia Betsey con i lineamenti, il corpo e l’atteggiamento di Maggie Smith, fin dalla lettura adolescenziale del romanzo di Dickens.
Sembrava burbera la zia di David, era burbera, ma bastava guardarla negli occhi per sentirsi rassicurati, vedere la bontà e capire che dopo uno scatto nervoso o un moto di sorpresa avrebbe fatto la scelta giusta e messo in atto tutta la sua grande capacità di empatia.
Non riesco a ricordare un film in cui Maggie Smith fosse giovane. Ho il vago ricordo di una pallida Desdemona accanto a Laurence Olivier, so che ha lavorato con registi importanti fin dall’adolescenza, eppure nella mia memoria ci sono solo immagini nette di una persona adulta e di un’anziana signora inglese.
Ha novant’anni; rughe sul volto, sul collo, sulle mani; sguardo un po’ perso nei grandi occhi spalancati. Eppure: quanta empatia esprime quel volto! Quanta energia si intravede dietro alla sua andatura leggermente claudicante! Per me è sempre zia Betsey e sempre lo sarà; siccome mi considero fratello di David, è anche mia zia.

Nel film The Miracle Club l’attrice interpreta una mamma costretta a sopravvivere alla morte del figlio avvenuta quarant’anni prima. Al dolore sono mescolati i sensi di colpa; è capitato – anche questo, purtroppo, succede nella vita – che per il bene del figlio, credendo di fare il suo bene, lo avesse allontanato dalla ragazza che amava.
A tutto si sopravvive: anche al rimorso e al dolore più forte che può capitarci quando non ce lo aspettiamo e crediamo che ci saranno ancora molti anni per correggere il tiro.
Improvvisamente il tempo si ferma: per spiegare il nostro comportamento, per chiedere «scusa se ti ho fatto soffrire» dovremo parlare con una lapide.

Nella piccola comunità cattolica irlandese abbondano i pettegolezzi e l’astio dura un’eternità; se non proprio un’eternità, dura almeno quarant’anni.
Siamo negli anni sessanta; la Chiesa di Roma non ha subito i terremoti che negli ultimi decenni l’hanno scossa dalle fondamenta: il papa è papa fino alla morte, il prete accoglie le confidenze e perdona anche gli sbalzi di umore e le uscite dai binari; svolge un ruolo importante in tutte le famiglie (credo che ora i preti non sappiano più che ruolo svolgono).
Le donne della comunità hanno una fede elementare: vanno a Lourdes come si va al mercato; si aspettano di trovare il miracolo della guarigione insieme alla statuina della Madonna, alla visita alla Grotta, al bagno nella vasca. Gli uomini hanno paura di non riuscire a cavarsela per una settimana senza l’aiuto delle mogli, con i figli piccoli, con i nipoti: fanno di tutto per impedire il viaggio.
La storia potrebbe svolgersi in tempi molto più vicini a noi: queste piccole comunità isolane vivono in una bolla.

La combriccola delle donne riesce a sfuggire al controllo dei mariti.
Il viaggio consente uno scambio sincero e profondo: finalmente le vecchie amiche – obbligate a condividere il letto, i pasti, l’immersione nell’acqua miracolosa, liberate dagli impegni e dalle finzioni della vita quotidiana – si guardano negli occhi e fanno venir fuori tutta l’aggressività che covano dentro da quarant’anni. Si mostrano come sono realmente e, alla fine, riescono a perdonarsi.
Forse è questo il miracolo: ritrovare la vecchia bolla accogliente dopo essere cambiate dentro.

Tanti anni fa sono andato a Lourdes, non per devozione ma per curiosità: volevo vedere che c’era.
Partecipai a tutti i riti, compreso il bagno nella vasca, e, mentre ero in attesa, seduto sulle severe panchine di pietra insieme ad altri, mi trovai accanto un fedele irlandese. Per superare la tensione e per simpatia cominciammo a scambiarci pensieri semplici, con parole scandite lentamente, per comunicare nonostante il suo forte accento (mi ricordava la pronuncia puteolana del napoletano) e il mio italoinglese.
Mi colpirono le sue mani ossute di contadino che stringevano un rosario. In napoletano si dice: «mani faticate».
Veniva tutti gli anni a Lourdes, insieme ad altri, in gruppo. Non so quale miracolo si aspettasse, ma mi sembrò di capire che la sua fede era legata al viaggio: il miracolo era la possibilità di raggiungere ogni anno Lourdes. Quell’anno ce l’aveva fatta e se ne sarebbe tornato al suo villaggio pienamente soddisfatto, confermato nella fede.
Il resto, se succede, “è un di più” (ha detto qualcuno).