27 ottobre 2024 h 17.00
Cinema Excelsior Empoli (FI) – via Cosimo Ridolfi, 75
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Napoli e dintorni
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“Parthenope”, regia di Paolo Sorrentino.
Continua la riflessione del regista sul passato; anche le ultime scene (le feste per lo scudetto del Napoli) sembrano girate nell’altro secolo e sono collocate nella sede naturale: il folclore utilizzato a fini turistici. Gli esaltati cantori dei successi calcistici credo abbiano capito: lo scudetto non cambia di una virgola il destino di una città, porta solo pochi soldi nelle tasche di alcuni e molti soldi sui conti bancari di altri. I carri e le tammurriate sono uguali a quelli delle feste di Piedigrotta organizzate dal sindaco Lauro, che, infatti, viene ripescato (l’avevamo quasi dimenticato).
In questo film Paolo Sorrentino attinge non solo ai ricordi suoi, anche ai ricordi degli altri.
Credo non abbia frequentato l’Università Centrale di Napoli ma Economia e Commercio, che si trova da un’altra parte.
Non conosco la situazione attuale (decentramento, moltiplicazione delle sedi); so che per i giovani che studiavano a Napoli nella seconda metà del novecento l’Università Federico II era l’edificio ricavato da antichi conventi cinquecenteschi in via Mezzocannone, a cui, alla fine dell’ottocento, fu aggiunta una costruzione sul Corso Umberto, il Rettifilo, in occasione del cosiddetto “Risanamento” (sventramento della parte più antica di Napoli). Su un lato di via Mezzocannone, da piazza San Domenico al Rettifilo, è università; sul lato opposto: librerie, stamperie dove si stampano le tesi di laurea, case dello studente, il cinema Astra, i bar dove si fa colazione e si esercita l’arte di intalliare (non c’entra nulla con gli intagli, in napoletano significa perdere tempo, procrastinare gli impegni; meglio: ‘ntalliare, ‘ntallià).
Questo, nei miei ricordi, è il palcoscenico sul quale si esibivano i giovani che inaugurarono l’università di massa a Napoli. Non ho informazioni di prima mano, ma credo che in tempi recenti si siano verificati fenomeni che non hanno giovato alla qualità dello spettacolo. Contrariamente alle scuole, che è opportuno diffondere e moltiplicare, le università dovrebbero essere poche e buone e dotate di borse di studio per agevolare i meritevoli. Si dovrebbe invogliare i “clerici vagantes” a spostarsi da casa alla ricerca dei corsi e dei professori migliori.
Tornando a via Mezzocannone, certamente è sparito il custode in divisa con le bande dorate che vigilava su uno degli ingressi e non c’è più il giovane, forse muto (non si è mai capito), che ti afferrava per il bavero gridando: «Ó ppa!» («Il pane!»). Ti lasciava sorridente dopo avere ottenuto qualche spicciolo e tutti gli volevamo bene, pensavamo portasse fortuna e domandavamo prima degli esami: «Si è visto Oppà?».
Sorrentino era iscritto a Economia e Commercio, una facoltà separata dalle altre, fisicamente e, soprattutto, nella mente degli studenti. Anche Architettura aveva un’altra sede, ma non era pensata estranea. Economia e Commercio era estranea.
Secondo me (posso sbagliarmi) il regista non ha estratto dalla propria esperienza il ricordo di quelle antiche aule a forma di emiciclo: erano le aule di via Mezzocannone, in particolare dell’Istituto di Matematica, di Scienze, di Fisica. Suppongo che in preparazione del film abbia fatto un giro per scegliere le “location” più cinematografiche.
Nell’aula ripresa, che ricordo bene, il pavimento fortemente in discesa converge verso le cattedre in fila. Dietro alle cattedre c’è la parete coperta di lavagne e una porticina. Non si coglieva mai il momento in cui, entrando dalla porticina, l’officiante appariva, di solito munito di una cartellina dalla quale estraeva il foglio adatto a quel momento del rito: una lunga citazione, i titoli dei libri più importanti, un elenco di date, i nomi degli esaminandi. Nel film è resa la “cerimonia religiosa”, che diventava primitiva, un vero e proprio sacrificio umano, durante gli esami. La vittima sacrificale aveva la possibilità di salvarsi: dipendeva dal caso, dalla prima domanda, dall’umore del professore (poche donne ai miei tempi, le più feroci) e anche dalla sua cocciutaggine, come è ben mostrato dal personaggio Parthenope.
Credo che il regista non abbia conosciuto personalmente il professore severo e malinconico, timido e aggressivo, dal cognome molto napoletano e molto intellettuale (Marotta), che Silvio Orlando disegna alla perfezione. I professori e gli studenti di Economia e Commercio, secondo i pregiudizi che io ancora conservo senza preoccuparmi di confrontarli con la realtà, erano fatti di una pasta diversa, concreta e aliena dai riti religiosi.
La ragazza Parthenope sfrutta la sua bellezza per dominare gli uomini, anche i più potenti, i maschi alfa per ricchezza, potere politico, camorristico, religioso. Non le fa schifo nessuno, neanche il cardinale che sembra un bulldog infoiato e fa venire il voltastomaco anche solo a guardarlo. Il sesso non le interessa molto; le basta essere desiderata, accarezzata, toccata. La sua aspirazione è di diventare come il professor Marotta: colto, severo, malinconico, rigoroso e un tantino stronzo. Riesce a diventare come lui (anche stronza) lontano da Napoli.
Suppongo che l’utilizzo dello scalone della Minerva per rappresentare l’assalto degli studenti negli anni della contestazione e dei sogni rivoluzionari sia una scelta cinematografica (si tratta sempre di location). Dietro la fila dei poliziotti protetti dagli scudi s’intravede la statua della Minerva. Era utilizzata dai “vecchi” goliardi per tormentare le maledette matricole fino alle feste di dicembre: dovevano accarezzare il sedere nudo del guerriero ai piedi della dea per ottenere un lasciapassare pieno di improperi in latinorum; i miei amici giuglianesi si organizzarono con i lasciapassare falsi. Dopo Natale non si era più matricole e la persecuzione scherzosa finiva. A destra della statua, salendo lo scalone, c’era l’aula di Fisica, a sinistra l’aula di Chimica. Non c’era nulla da assalire o da conquistare o da difendere con gli scudi, anche perché lo scalone si trova nel cortile interno; quando si decideva di occupare non c’era da fare altro che non uscire dall’aula. Il “Magnifico Rettore” esitava a chiamare la polizia per un antico rispetto dell’autonomia universitaria. Qualche assalto, nei tempi duri, avvenne all’ingresso ottocentesco fiancheggiato da sfingi, sul Rettifilo.
Altri luoghi scelti da Paolo Sorrentino pescandoli tra i ricordi dei giovani che negli anni settanta frequentavano l’Università di Napoli: il chiostro del Salvatore, il chiostro monumentale o cortile delle Statue, la biblioteca universitaria al primo piano. Posti di austera bellezza.
L’abitazione sul mare, dove Parthenope nasce e vive la giovinezza spensierata fino alla tragedia, fa pensare a Raffaele La Capria e al Palazzo Donn’Anna (Palazzo Medina, abitazione di Massimo De Luca, personaggio principale di Ferito a morte).
Paolo Sorrentino è un artista e quando non pesca nei propri ricordi, come ha fatto in È stata la mano di Dio (ovviamente trasfigurandoli), pesca nei ricordi degli altri.
Così si spiega il comandante Achille Lauro.
Negli anni settanta era in declino e già quasi finito tra un matrimonio in tarda età, un’adozione e rapporti incrinati con i figli di primo letto. Nelle stanze del potere era stato sostituito da altri personaggi politici molto meno folcloristici: i Gava, Cirino Pomicino e l’immancabile Divo che diavoleggiava sornione.
Achille Lauro era un populista che mescolava imprenditoria, politica e calcio per mantenere il potere (viene in mente qualcun altro?).
Tra i personaggi non poteva mancare, per chi conosce gli interessi del regista, il cardinale, il bulldog da cui Parthenope si fa toccare per avere lo stupido privilegio di indossare il tesoro di San Gennaro. Troppo poco per una ragazza intelligente! Qui Sorrentino si perde. Il film non è più Parthenope, è diventato “Tesorone, il cardinale diavolone”. Marco Giusti lo definirebbe stracult (credo) e piacerebbe a Quentin Tarantino, come i film con Edwige Fenech che fa la doccia, Lino Banfi che la spia dal buco della serratura, Pierino ….
Il miracolo di San Gennaro merita di essere creduto o negato, anche irriso bonariamente, non di essere trattato come nel film.
Il regista ritrova un guizzo con la diva che assomiglia a Sophia e fa un elenco dettagliato dei difetti dei napoletani, contro la montagna di retorica che sommerge la città. Come esempio di questa retorica Sorrentino dovrebbe ricordare le feste esagerate per lo scudetto, applaudite dagli intellettuali senza reticenze. Forse la vera Parthenope, tornata a Napoli dopo essere andata in pensione, si rimetterebbe in macchina per andare via dopo avere visto quel lugubre carro carico di illusioni.
Se dobbiamo fare autocritica, facciamola completa. Manca la colonna sonora adatta all’elenco delle colpe dei napoletani sciorinato dalla diva: l’autocritica feroce dei Virtuosi di San Martino, la canzone “Napule” che fu utilizzata in un importante film di animazione: Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone, da non confondere con la più famosa opera teatrale del maestro De Simone.
(Testo dei Virtuosi di San Martino; la schwa indica il suono vocalico intermedio tra /a/ ed /e/ caratteristico della lingua napoletana): «Napulə, Napulə, Napulə / C’addor’e fummə (Che odore di fumo) / Stann’appicciannə a munnezzə (stanno incendiando la spazzatura) / Dujə marənare (due marinai) / stannə tirannə na rezzə (stanno tirando la rete) / Peschənə a mare na rotə e dujə cupertunə (pescano a mare una ruota e due copertoni) / e tre guagliunə (e tre ragazzi) / fannə e rapinə chiù là (fanno le rapine più in là) / Sientə chest’aria ch’è chienə e diossina (senti quest’aria piena di diossina) da Procida a Resina / ó smog a Margəllina (lo smog a Mergellina). / Addó a truovə na città ca fa chiù schifə e Napulə stasera? (Dove trovi una città che fa più schifo di Napoli stasera?) / E sta gentə chə sta cca nunn’è mai statə nu popolə sincerə (la gente che vive qua non è mai stata un popolo sincero) …».
Come fa questa città a essere ancora così bella, dopo tutti i guai che ha passato, che continua a passare? Guai che alcuni vorrebbero superare guardando indietro – addirittura ai borboni! Lauro, i borboni, i lazzari sanfedisti che festeggiarono con le tammurriate l’impiccagione di Eleonora Pimentel Fonseca e la fine della Repubblica Napoletana (o Napolitana) del 1799.
La diva ha perso i capelli ma le basta mettere la parrucca e inforcare gli occhiali scuri per tornare come era (sotto al trucco c’è la bellissima Luisa Ranieri).
Parthenope, la sirena conturbante nata nello specchio di mare antistante Mergellina (o Posillipo), dopo una tragedia non ben spiegata, legata al rapporto poco chiaro con il fratello, trova nel professore la figura paterna, va via da Napoli, a Trento, e ci rimane per il resto della vita, fino alla pensione.
È un film complicato. Sorrentino ci ha messo tutto, come se avesse novant’anni e fosse il suo ultimo film. Una specie di riassunto o di testamento, paragonabile a Finalement di Lelouch (che ha ottantasette anni), anche se, ovviamente, i due film sono molto diversi. C’è lo stesso amore per il cinema e la stessa idea di volersi far guidare unicamente dalla fantasia, anche a rischio di essere incomprensibili.
Purtroppo manca una sceneggiatura che aiuti a collegare i vari segmenti e a comprendere i “misteri” (come quelli del rosario). Per esempio: chi è quel bambino (?), quell’essere tondo enorme, fatto di acqua e sale, che vive nella casa del professor Marotta? Così assurdo, misterioso, incomprensibile.
Ero in fila al cinema La Compagnia per assistere a una proiezione nell’ambito di France Odeon, il festival del cinema francese a Firenze che si è svolto in questi giorni.
Accanto a me, in attesa che aprissero l’ingresso in sala, è capitato uno che mi sembrava esperto di cinema e parlava ad alta voce delle qualità di “Parthenope”. Diceva a un altro della fila: «Devi vedere questo film!».
Ho approfittato dell’occasione per chiedere: «Scusi, per caso ho sentito: mi può spiegare che cosa rappresenta il bambino grasso?» (troppo grande per essere un bambino).
Pieno di entusiasmo quando ha scoperto la mia origine napoletana, con molta gentilezza ha fatto un discorso complicato. Credo sia stato salvato dalle porte della sala che si sono aperte. Quando ho raggiunto il mio posto, nei pochi minuti di attesa dell’inizio del film ho riflettuto su ciò che avevo sentito e ho concluso tra me e me che siamo almeno in due a non avere capito chi è quell’individuo indefinibile di dimensioni esagerate e di aspetto inquietante.
Nota: Leggo sul profilo del compianto Francesco Durante questo trafiletto a cura di Natascia Festa: “Nel 1985 Francesco Durante (che ci manca molto) e Antonio Fiore pubblicarono nell’inserto cultura “Il Sabato del Mattino”: “Oppà Oppà. Poesia visiva”. Una perla restituita da una fortunata ricerca d’archivio. Leggete l’ineguagliabile genio, ne ritroverete il sorriso.
https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/…/napoli…”
Non sapevo che per i giovani napoletani Umberto Consiglio (che chiamavamo Oppà) fosse così famoso. Io venivo dalla provincia e l’avevo conosciuto solo quando mi ero iscritto all’Università di Napoli e avevo cominciato a frequentare i corsi. Per alcuni di noi, anche per me, portava fortuna ed era, dai miei ricordi, assolutamente non fastidioso. Bastava dargli qualcosa e smetteva di “attaccarsi” al soggetto scelto. È stato emozionante scoprire il nome e rivedere il volto di questa persona conosciuta tanti anni fa, a Napoli, davanti all’Università.