
16 ottobre 2024 h 18.35
Cinema Adriano Firenze – via Giandomenico Romagnosi, 46
Famiglia (genitori e figli)
// Il tempo che ci vuole // Dostoevskij // Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw // Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
“Il tempo che ci vuole”, regia di Francesca Comencini.
Un film intimo e surreale. La prima parte sembra una versione moderna di Le avventure di Pinocchio; il padre è Geppetto, il burattino è la bambina. È ricostruito il set del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini come apparve agli occhi di una bambina che aveva occhi solo per suo padre.
Geppetto gioca con il burattino, studia le sue reazioni e cerca di insegnargli le regole, i valori. Il burattino (la bambina) pende dalle sue labbra ma manifesta un cruccio, la paura dei mostri (il pescecane, la balena) che da fuori possono invadere il mondo disegnato per lui (per lei) dal padre.
Geppetto sembra perfetto: è il padre che ognuno vorrebbe al posto del proprio e fa con successo un lavoro meraviglioso: il regista cinematografico. Forse per la figlia è un modello troppo grande, irraggiungibile.
Manca la fata turchina, la figura materna (la madre biologica, una zia, una sorella più grande, una maestra degna di questo nome) che avrebbe aiutato la bambina a crescere e ad accettare i propri limiti, i propri fallimenti, i propri errori.
Nella realtà sappiamo che Francesca Comencini ha mamma e sorelle, ma qui si parla del film.
Manca la maestra che in un corso di ceramica non si sostituisca alla bambina per aiutarla a realizzare una statuina troppo perfetta – «L’hai fatta tu?» chiede il padre; «Sì» risponde la bambina; è la prima bugia.
Nella seconda parte la bambina è cresciuta, è diventata adolescente. Il burattino ha seguito Lucignolo nel paese dei balocchi. La bambina paurosa è una ragazza insicura. Come si spiega? È difficile dirlo. La sceneggiatura non ci aiuta perché la regista ha deciso di isolare i due personaggi (come in Aspettando Godot). La bambina – il personaggio del film, che è solo in parte Francesca Comencini – non ha una figura femminile in cui identificarsi. È curioso l’isolamento nel quale la regista si è rappresentata, pur avendo tre sorelle. Ha cancellato il resto della sua famiglia di origine. Credo l’abbia fatto per ridurre all’essenziale il discorso e non mescolare altri temi (rapporto con le sorelle, rapporto con la madre). Ho scoperto di avere sempre confuso tra di loro Francesca e Cristina, entrambe registe, forse anche con Eleonora, attrice, e non conoscevo l’esistenza di Paola, che ha collaborato alla scenografia essenziale di questo film; quando i personaggi si riducono a due il dramma si svolge in pochi ambienti, quasi sempre gli stessi: lungo corridoio, salottino scarno con divanetto e televisore, stretto studio con una piccola scrivania colma di fogli e di una macchina per scrivere, stanza d’albergo disadorna con due tristi lettini messi uno di fronte all’altro. Padre e figlia si erano incarcerati.
C’erano tanti Lucignolo per le strade negli anni settanta, soprattutto tra i ragazzi della borghesia danarosa romana. Bastano le scene nella scuola per capire quanto fossero imbecilli quei ragazzi viziati. Molti adulti, come il professore, erano privi di autorevolezza, quindi di autorità. Probabilmente anche nelle scuole frequentate dai proletari ci furono gli applausi disgustosi alla notizia del rapimento di Aldo Moro, però il comportamento dei fighetti dell’alta società che giocavano a fare i rivoluzionari fa vomitare.
Alla domanda del padre («Quale personaggio di Pinocchio ti piace di più?») la bambina aveva risposto: Lucignolo. Da adolescente incontra Lucignolo e si fa trascinare su una strada sbagliata.
In quegli anni il paese dei balocchi era la droga, oltre alle velleità rivoluzionarie altrettanto distruttive.
Geppetto ha sbagliato a fidarsi della figlia e forse quello schiaffo impulsivo avrebbe dovuto darglielo molto prima. Non sono favorevole alle punizioni corporali, però credo sia meglio uno schiaffo dato quando la ragazza gli manca di rispetto che illudersi con la frase fatta: «Dimmi la verità, ho fiducia in te».
C’è un momento in cui la figlia manca di rispetto nei confronti del padre, quando dice due battute terribili: «Papà, ce l’hai ancora il corpo?»; «Tu, come tutti gli uomini, disprezzi visceralmente le donne».
Con la prima rinfaccia al padre, che comincia ad avere tremori incontrollabili delle mani, il decadimento fisico, come fosse una colpa; con la seconda sembra che voglia attribuire al padre la responsabilità della sua crisi, spostando il discorso dalle difficoltà personali di una ragazza dell’alta borghesia cresciuta nella bambagia alle rivendicazioni femministe. Lo accusa pur conoscendo il profondo rispetto sempre manifestato dal padre nei confronti di tutti, in particolare delle donne, anche le più semplici che curiosavano dalle loro finestre e lo costringevano a girare di nuovo una scena.
Quando dico alta borghesia e bambagia mi riferisco al fatto che non molte ragazze di quegli anni potevano essere portate dal padre a Parigi per allontanarle dall’ambiente malsano che avevano preso a frequentare a Roma.
La ragazza riesce a venir fuori dal paese dei balocchi perché è fortunata, appartiene all’alta società e ha un padre che può dire: «Andiamo a Parigi e ci restiamo il tempo che ci vuole».
Uscire dalla tossicodipendenza non è facile, anche per chi ha la fortuna di un padre che interrompe il suo lavoro di regista per occuparsi solo della figlia, nonostante il progredire del tremolio incontrollabile delle mani.
Anche a Parigi la realtà è dura per chi ha sostituito l’eroina con il metadone; la scabbia è un fastidio secondario, non grave ma deprimente, per chi ha vissuto nel paese dei balocchi (la pelle d’asino del capolavoro di Collodi è una metafora nella versione moderna messa in scena in questo film).
La regista sorvola sugli aiuti ricevuti per “uscire dal tunnel” (psicoterapeuta privato? Comunità?). Finalmente può dire al padre: «Sto bene», trova la strada della regia, riesce a fare il primo film con il quale vince un premio importante.
Purtroppo la guarigione dalla tossicodipendenza della figlia coincide con l’aggravarsi della malattia di Parkinson del padre.
Qui c’è la scena finale che non è piaciuta a molti: il volo di padre e figlia da una finestra che guarda sul magnifico panorama del Vesuvio e del golfo di Napoli, con il padre che si stacca dalla figlia e si avvia da solo in direzione di una nuvola.
A me è piaciuta per tre motivi: 1) è molto cinematografica, realizzata molto bene (sarebbe bastato un niente per scadere nel ridicolo) e adatta a un film surreale; 2) mi ha sollevato dall’angoscia che riempie lo schermo in tutta la seconda parte, dopo le scene allegre dell’infanzia, quando, con l’adolescenza, si abbandona la favola e si sfiora la tragedia; 3) ho visto in questa scena la fuga di Geppetto e Pinocchio dal ventre della balena con l’aiuto del delfino sulle onde del mare fino alla liberazione.
Grandi Fabrizio Gifuni (come sempre) e la giovane, intensa Romana Maggiora Vergano.