31 gennaio 2024 h 18.00
Cinema Arsenale Pisa – SALA SAMMARTINO
Film brutti. Decisamente brutti
// Dall’alto di una fredda torre // The Fall Guy // Civil War // Enea // Chi segna vince // Un uomo felice // La guerra del Tiburtino III // Mi fanno male i capelli // Felicità // L’ordine del tempo // Educazione Fisica // Il primo giorno della mia vita // Vicini di casa // War La guerra desiderata // Dune // Domani è un altro giorno // Dead in a week // Una vita spericolata // Doppio amore [L’amant double] // Sono tornato //
Famiglia (genitori e figli)
// Il tempo che ci vuole // Dostoevskij // Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato // Enea // Club Zero // Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw // Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
Non basta mettere in scena un uso singolare dei salmoni, riprendere con i droni, rifare l’undici settembre delle torri gemelle per rendere interessante un film noioso.
“Non è mica da questi particolari che si giudica” un artista. E neanche si giudica dal padre. Se è figlio di un grande attore – che so: Ricky Tognazzi o Alessandro Gassmann – e dimostra di essere un bravo regista e/o un bravo attore, sono pronto a sperticarmi in elogi, a profondermi in complimenti. Ho molto apprezzato Ricky Tognazzi regista di Ultrà e Alessandro Gassmann nei Bastardi di Pizzofalcone.
Però non basta essere il figlio di un attore importante e di una scrittrice conosciuta per essere capaci di recitare e di raccontare una storia. Il film Enea di Pietro Castellitto ne è una dimostrazione matematica.
Sono interessanti solo le scene in cui è presente Sergio Castellitto che interpreta il padre disperato e compresso di una famiglia borghese infelice.
Solo quando parla Castellitto padre – o quando parla Chiara Noschese – la mente dello spettatore è raggiunta senza sforzo dalle battute pronunciate sullo schermo, anche se la voce del personaggio è rotta dai singhiozzi. Se parlano gli altri, tra i quali Pietro Castellitto, si sente un borbottio smozzicato, metà delle parole si perdono nel rumore di fondo.
Non dipende dall’accento. Nel film Bassifondi (regia di Francesco Pividori) Romano Talevi e Gabriele Silli, che interpretano i due clochard, hanno l’accento romanesco dei personaggi e usano intere espressioni dialettali. Eppure le loro parole, anche nel pieno della bufera emotiva, raggiungono la mente dello spettatore. Le parole sono emesse come l’arte insegna e sono accompagnate dall’espressione di tutto il corpo.
I personaggi di C’è ancora domani (Paola Cortellesi) parlano in dialetto, qualcuno in romanesco stretto. Il significato è veicolato dal volto, dalla postura dei personaggi.
Primo comandamento: in ogni situazione, anche quando parla tra sé e sé, l’attore deve farsi capire; deve farsi capire se è un moribondo che saluta un altro moribondo mentre intorno infuria la battaglia, deve farsi capire se la scena si svolge in una discoteca o in un’acciaieria.
Pietro Castellitto sembra non essere in grado di pretendere da se stesso e dagli attori che dirige (tranne due) il rispetto del primo comandamento; in altri termini: non controlla il risultato della presa diretta o del doppiaggio. O forse dipende dalla immobilità dei volti poco espressivi degli attori (a cominciare dal volto di Pietro).
Non so perché questo accada: lo sento da spettatore. Ammetto possa dipendere anche da me: quando un film comincia a non piacermi, dopo l’incipit, riduco gradualmente l’attenzione. Non siamo a scuola, anzi: catturarci, come a scuola, è il compito del regista (del professore).
Obiezione: nei film attuali preferiamo che si parli come nella vita reale. Si sa che Sergio Castellitto non è mai stato un fanatico della dizione; però ha imparato a comunicare.
Tutta quella popolazione di borghesi insoddisfatti e di gente fuori di testa che si agita sullo schermo non è la vita, è finzione. Dovrebbero cercare, attraverso la finzione, di comunicare con noi; noi siamo disposti a prestare un po’ di attenzione, ma, come si fa con i prestiti di denaro, verifichiamo se il debito possa essere restituito. Pietro ci restituisce troppo poco in cambio della nostra attenzione. Dopo un po’ lasciamo perdere, anche perché la storia è noiosa o è raccontata in un modo che annoia (nonostante i voli aerei).
Non basta inquadrare in ogni scena i tuoi occhioni spalancati – mi rivolgo a Pietro, permettendomi la confidenza perché ho pagato il biglietto e mi sembra di essere stato fregato – e il tuo lungo naso diritto su un volto inespressivo e immobile.
Abbiamo capito che ti piaci, ma siamo qui per sentirti raccontare una storia, non per guardarti. Come in tutte le cose, è una questione di talento. La fortuna può aiutare a cominciare, poi serve il talento.
Per fare il nannimoretti dei primi film (sempre in primo piano a guardare con orrore i giovani studenti borghesi e il clan a cui appartiene: amici, padre, madre, sorella o fratello) è necessario che nell’aria ci sia il bisogno di una forte autocritica della borghesia. Non mi sembra questo il momento. Inoltre occorre il talento di Michele Apicella.
Pietro Castellitto mette molto della sua famiglia nei film. Racconta con generosità di se stesso nelle interviste, per esempio di quando, da ragazzo quattordicenne, sputò nel diario di una compagna (intervista a Tintoria Podcast: Daniele Tinti e Stefano Rapone). Ciò che conta è la mancanza di inibizioni, parlare di qualunque cosa con sincerità.
Racconta un episodio accaduto quando faceva la prima media e riportò a casa da una gita scolastica uno stronzo che lo scarico non era riuscito a far sparire. Non trovando come eliminarlo (aveva pensato di buttarlo dalla finestra, ma nel cortile poteva esserci la professoressa), l’aveva messo in un sacchetto e il sacchetto in valigia. Ha raccontato questo episodio almeno due volte, una volta con il contributo del padre che ha spiegato come eliminò lo stronzo trovato aprendo la valigia di Pietro di ritorno dalla gita. La cosa che mi ha colpito di questo racconto è la conclusione: in entrambi i casi ha aggiunto che avrebbe voluto ricavarne un film. «Ora non posso farlo più» ha concluso tra gli applausi. Mi sono chiesto: ma questo veramente ha pensato di fare un film partendo da un episodio triste, ma anche marginale, della sua vita?
Ho immaginato il resto della gita, il viaggio di ritorno in pullman (le canzoni, gli scherzi, l’allegria) di un ragazzo di undici anni col segreto in valigia, così segreto da non riuscire a liberarsi del maleodorante sacchetto. Il tono del racconto è divertito. Il primo (lo sputo nel diario) fa pensare alla paura («Mi faranno il DNA!?») che lo indusse a confessare.
Bando alle inibizioni, parlare di tutto con leggerezza, sincerità.
Io, piccolo borghese, preferisco Massimo Troisi in Scusate il ritardo – Anna (Giuliana De Sio): «Posso essere sincera?»; Vincenzo (Massimo Troisi): «No. Non è necessario» – (vado a memoria).
È proprio necessario parlare di tutto in modo superficiale, per farsi una risata sul ragazzino complicato che è ancora dentro di noi? Se vuoi fare una seduta psicanalitica pubblica, facciamola. Ma seriamente.
Non m’importa nulla che Pietro sia nato in una famiglia ricca, come dice il padre (personaggio) al figlio (sempre personaggio).
Se il regista è capace di tenermi attaccato allo schermo, applaudo la sua fortuna.
Ma non deve annoiarmi con salti di racconto immotivati, mandando, per consolarmi, qualche bella canzone utilizzata come riempitivo estraneo al contenuto. Durante la festa per il matrimonio gli invitati e gli sposi cantano in coro: «Che fretta c’era / maledetta primavera? / Che fretta c’era? / Maledetta come me».
Con le maledizioni beneauguranti certamente vogliono combinare due auguri: «Buon matrimonio» e «Buon divorzio che sicuramente seguirà a breve il matrimonio».
Nota sul cognome di Alessandro Gassmann – Qualcuno mi ha segnalato la doppia enne come errore.
(Dal sito di sky TG24) I genitori di Vittorio Gassman erano ebrei. La madre, vedova con due figli, negli anni ’30 cambiò il suo cognome da Ambroon ad Ambrosi per non avere fastidi dal regime fascista e tolse una enne al cognome dei figli, che da Gassmann divenne Gassman. I figli e, di conseguenza, i nipoti di Vittorio hanno rimesso la enne al posto suo. Dunque il cognome di Alessandro è Gassmann.