
13 gennaio 2023 h 17.00
Cinema Adriano Firenze – via Giandomenico Romagnosi, 46
Altro film del regista
// Martin Eden //
Famiglia (genitori e figli)
// Come pecore in mezzo ai lupi // Ritorno a Seul // Beau ha paura [Beau is afraid] // Miracle: Letters to the President // The Whale // Le vele scarlatte // The Fabelmans // Marcel! // True mothers // Una vita in fuga // One second // Cry Macho // È stata la mano di Dio // Madres paralelas // Raw /e/ Titane // Tre piani // La terra dei figli // Favolacce // Tutto il mio folle amore // Un affare di famiglia // La stanza delle meraviglie // Lady Bird /e/ Puoi baciare lo sposo // Tre manifesti a Ebbing, Missouri //
Gli unici sani, nello sperduto villaggio della Normandia, vivono insieme in una fattoria appartata, in una comunità di mutuo soccorso tra estranei. Non hanno formato una famiglia tradizionale (ruoli fissi, obblighi, ricatti affettivi), ma una famiglia allargata in cui si entra per libera scelta.
Questo elemento mi ricorda Un affare di famiglia, di Kore’eda Hirokazu, uno dei più bei film che ho visto nel 2018 (commento su questo sito).
Nel villaggio sono considerati strani (non sani ma strani).
Guida il gruppo la personalità carismatica, Madame Adeline, la strega buona.
Si chiama da sé strega, per scherzo, con le altre donne del gruppo («Noi siamo le streghe»). La strega buona nelle favole è la fata. La fata, nella tradizione religiosa, è l’angelo. Madame Adeline è l’angelo della comunità.
Guaritrice, impone le mani, legge il futuro nella polvere di caffè, alla fine salva le gambe dell’aviatore.
Ha accudito dalla nascita la bambina Juliette, figlia di Mary, la ragazza stuprata e uccisa da un prepotente dopo che il marito, Raphaël, è partito per la guerra (la prima guerra mondiale).
I figli dei potenti non andavano in guerra, restavano in paese a esercitare soprusi, sui poveri e sulle donne.
Altri personaggi vivono nella comunità; si esprimono poco e fanno da contorno nella casa appartata, fuori del villaggio, povera ma colma di amore.
Raphaël torna dalla guerra – a piedi perché dalla prima e dalla seconda guerra mondiale i poveri soldati tornavano, quando tornavano, a piedi, distrutti dalla stanchezza, con gli abiti sbrindellati, i vecchi scarponi, le mani nere, il passo di chi ha macinato chilometri di campagna.
Raggiunge la fattoria di Madame Adeline, la vedova che ha aiutato la sua donna e cresciuto la figlia. Non conosce la fine terribile di Mary, sa solo che è morta e gli ha lasciato una figlia: Juliette. Quando saprà la verità Madame Adeline lo rassicurerà: è figlia tua, non è figlia dello stupro.
Non è detto sia vero, il film non ce lo dice, potrebbe essere una dolce bugia dell’angelo. È vero: Juliette è figlia dell’uomo che si comporta da padre.
Raphaël butta nel camino la croce d’onore che gli hanno dato in guerra e cerca un lavoro.
È un falegname, bravo scultore del legno, grande lavoratore.
L’attore Raphaël Thiéry, in questo film, ha il volto di Gastone Moschin quando interpretava Jean Valjean nello sceneggiato televisivo estratto da I miserabili (1964, regia di Sandro Bolchi): uno dei migliori prodotti della televisione di quegli anni (Tino Carraro – Javert; Giulia Lazzarini – Fantine e Cosetta).
Non solo il volto: il fisico, lo sguardo, il modo di muoversi, il modo di parlare. Se non sapessi che Gastone Moschin, purtroppo, è morto nel 2017, penserei che Raphaël Thiéry sia lo pseudonimo con cui Gastone Moschin, fermo nel tempo, uguale a come era tanti anni fa, ha scelto di interpretare questo personaggio.
Il personaggio ricorda molto Jean Valjean: un pover’uomo della Francia rurale che viene colpito in tutti i modi, dalla storia (dai governanti) e dagli uomini che lo circondano, intenzionati a non rinunciare al misero potere di vessare i più poveri. Raphaël subisce e non si sottrae alla fatica: china la testa e cammina, china la testa e lavora, fino a non farcela più di camminare e di lavorare.
«Ciuccə e carrettə miə, ciuccə e carrettə / Si natə p’a faticə e pə tirà / Nisciunə rint’a stallə t’arricettə / Surtantə a scesə e te n’havə pietà».
Raffaele Viviani – Sotto a nu lampionə – da Poesie (I Tascabili Guida Editori)
«Asinello che tiri il carretto / Sei nato per la fatica di tirare / Nessuno nella stalla ti conforta / Solo la discesa ha pietà di te».
Raphaël trova un lavoro, ma poi scopre come la moglie è morta e, giustamente, non aiuta l’assassino impunito e non pentito che sta affogando in un fosso: lo abbandona come merita.
Purtroppo l’assassino non muore ma viene salvato da altri e, da quel momento, Raphaël è isolato nel villaggio da quelli che si associano sempre al più forte. Alla fine è licenziato.
Riesce a sopravvivere vendendo giocattolini di legno a un negozio in città; ogni tanto prende il treno insieme a Juliette per vendere i suoi lavori.
Juliette cresce. Come gli altri membri del gruppo appartato, come suo padre, subisce l’astio dei paesani. Poiché è donna, subisce anche i rozzi tentativi di approccio dei giovani maschi incapaci di controllare i propri desideri. Si difende e sogna l’evasione da quel villaggio privo di prospettive, in cui il futuro è segnato per le donne e per i poveri.
La trama, liberamente tratta dal libro omonimo (1923) dello scrittore russo Aleksandr Grin, è semplice; la situazione nel villaggio è dura.
Raphaël è un faticatore, come si dice a Napoli, ma è anche intelligente e moderno: «Tu deciderai con me, decideremo sempre insieme», dice alla figlia quando la maestra gli suggerisce di mandarla a scuola in città (in quell’epoca nessuna autonomia, nessuna possibilità di scelta davano i padri ai figli, soprattutto alle figlie femmine).
Due dettagli mi colpiscono: le mani di Raphaël, i suoi occhi chiarissimi, chini sul lavoro, rivolti a terra quando cammina nella folla ostile del villaggio, sollevati in uno sguardo purissimo quando li rivolge verso la figlia.
Le dita sono grosse, sembrano legnose; a quelle mani si aggrappa la bambina, poi la donna adulta, per avere sicurezza.
Con quelle mani tozze ritaglia, scolpisce, realizza i giocattoli che gli consentono di affrontare la miseria.
L’ultimo lavoro è la polena di una barca con il volto della donna amata e persa.
Il racconto è inframezzato da spezzoni di riprese originali, con ricostruzioni di ambiente che mostrano il modo in cui vivevano, negli anni venti dell’altro secolo, i nostri nonni (i nonni di noi vecchi), i bisnonni degli adulti, i trisavoli degli adolescenti di oggi.
È passato poco tempo, solo un centinaio di anni. Sembra ieri.
La Grande Guerra era finita da poco, con il suo regalo conclusivo: la pandemia spagnola. Altri disastri si facevano avanti (i fascismi, le rivoluzioni, altre guerre, tra cui, catastrofica, la seconda). Come era diverso dal nostro il modo di vivere dei nonni, o bisnonni, o trisavoli!
In alcuni posti c’era la belle epoque, dicono, ma nella Francia (come nell’Italia) rurale si doveva pompare l’acqua (vediamo l’attrezzo nel film), i servizi igienici erano inesistenti o approssimativi, il datore di lavoro si chiamava padrone, il lavoro non era un diritto ma un’elemosina, le donne lavoravano in casa e fuori casa ed erano pagate molto meno degli uomini, lo stupro era quasi un diritto dei maschi appartenenti alle famiglie potenti del paese.
In questa situazione: viva le streghe!
Alla fine arrivano le vele scarlatte, come l’altra strega buona, la “magicienne” (maga) aveva preconizzato. Il povero Raphaël guarisce dalla malattia della vita (finalmente si riposa) e dal cielo scende il bell’aviatore avventuriero che porta a Juliette il sogno di un destino diverso.
Bisogna credere nei sogni; se ci crediamo si realizzeranno.
Il film è molto bello, preciso, poetico: le immagini e la musica restano nel cuore. È quasi gemello (soprattutto per lo stile della confezione) del film di Pietro Marcello che mi ha fatto apprezzare questo regista: Martin Eden napoletano.
Un consiglio per chi va a vederlo ora: abbandonarsi al fluire delle immagini (ambienti e volti) e dei suoni, come da bambini ci si abbandonava al racconto delle favole vere; c’è tutto: l’amore, la violenza, il sogno.