14 gennaio 2022 h 18.15
Cinema Odeon Pisa – piazza San Paolo all’Orto

Altri film dei registi: // La terra dell’abbastanza // Favolacce //

Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
// BlackBerry (thriller tecnologico) // Club Zero (horror alimentare) // Come pecore in mezzo ai lupi // Sanctuary (thriller psicologico) // Beau ha paura [Beau is afraid] // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Preparativi per stare insieme … (thriller psicologico) // L’ultima notte di Amore (noir metropolitano) // Holy Spider // M3GAN (thriller distopico) // Bones and All (horror cannibale) // Nido di vipere // L’homme de la cave [Un’ombra sulla verità] // La fiera delle illusioni // America Latina // Raw (horror cannibale) // Titane // Doppia pelle [Le daim] // Il sospetto [Jagten] // Favolacce // Notorious! (thriller H) // Parasite // Il signor diavolo // The dead don’t die (gli zombie sono tornati) // Border: creature di confine // La casa di Jack // Gli uccelli [The birds] (horror H) // L’albero del vicino //

Il momento del risveglio è particolare.
Si emerge da un altro mondo che, spesso, lascia dietro di sé qualche immagine confusa associata all’ultimo sogno. Di solito le immagini sbiadiscono rapidamente, poi svaniscono dalla memoria senza lasciare tracce nell’umore.
Può accadere di svegliarsi come Gregor Samsa e di restare lì per qualche secondo: impauriti, infelici, tra sonno e veglia; pochi secondi, poi passa.
L’invenzione di Kafka non sono le zampette che si agitano sotto il corpo trasformato in insetto, è la durata di quella visione e di quella sensazione.
Massimo, il personaggio protagonista del film, vive la stessa esperienza che Franz Kafka ha descritto ne La Metamorfosi (1915).
Svegliandosi nel livido chiarore dell’alba, mentre tutta la casa dorme, si trova improvvisamente in un altro mondo. In cantina c’è una bambina prigioniera, insanguinata, imbavagliata, legata al tubo dell’acqua. Intorno c’è di tutto, come se una furia distruttiva, bestiale, si fosse scatenata.
Basterebbe girarsi dall’altra parte per far svanire l’immagine, come accade sempre. Questa volta non basta: la realtà costruita dall’inconscio, che generalmente è costituita da immagini oniriche, è diventata realtà esterna, mescolata alla realtà percepita dalla parte conscia della mente di Massimo.
Un incubo. Immaginiamo di andare in giro e trovarci immersi nei nostri sogni e nei nostri incubi, o in una parte di essi.
Massimo può chiudere la porta a chiave, non può far tornare l’inconscio nell’ombra: lo ritrova ogni volta che scende le scale, si è trasferito nella cantina della casa dove vive questa famiglia all’apparenza perfetta: padre, madre, due figlie. È lì e condiziona la vita cosciente molto più che attraverso i timidi lapsus freudiani.
Una cosa è vedere in sogno un’immagine confusa di violenza, altro è trovare in cantina la vittima reale della violenza, in carne e ossa, con il suo terrore e le sue reazioni. Appena può: urla, mugola, morde le dita, guarda Massimo con gli occhi sbarrati.

Dopo l’incipit è questa la chiave di lettura che utilizzo per capirci qualcosa, e rimane questa quasi fino alle ultime scene. Alla fine i registi mi smentiscono.

Vediamo il dentista (Massimo) recarsi nella cantina sempre da solo; nessuno, tranne lui, sente gli urli e i mugolii della poveretta; nessuno sente il rumore quando, dopo qualche giorno, esasperato, urla: «mi stai creando dei problemi», scatena la sua furia distruttiva e colpisce con una chiave inglese i tubi dell’acqua. L’acqua invade la cantina senza conseguenze nel resto dell’appartamento, nel giardino; il cane non avverte la presenza di un estraneo.
Ciò che accade laggiù riguarda unicamente il dentista: è l’inconscio, la parte più personale della nostra psiche (sto utilizzando la chiave di lettura che i registi smentiscono nelle ultime scene). C’è una differenza rispetto a Gregor Samsa: nel suo caso la famiglia vedeva la trasformazione e, con fatica, si adattava, trovando addirittura giovamento (il padre). Per Massimo la faccenda è personale e ogni tentativo di coinvolgere gli altri fallisce miseramente. Solo lui si vede come una possibile bestia feroce, gli altri continuano a vedere l’amico, il dentista, il buon padre di famiglia, e lo guardano strano quando cerca di capire se anche loro sono diventati bestie.

A proposito di faccenda personale.
I due giovani registi sono profondi, abituati a osservare con intelligenza la vita, in quella condizione particolare che non riesco neanche a immaginare: la condizione dei gemelli omozigoti.
Non riesco a immaginarla perché, se fossi obbligato a viverla, sarebbe fonte di imbarazzo.
Mi sentirei a disagio se sapessi che c’è un altro me stesso, un quasi me stesso, che conosce ogni mio particolare anatomico e psichico perché molte mie caratteristiche anatomiche e psichiche sono anche sue.
I gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo si fanno fotografare quasi sempre insieme, molte volte abbracciati. Non ho fatto un’indagine statistica sulle loro immagini, è solo un’impressione che ricavo da distratto frequentatore della rete.
Se avessi un fratello gemello omozigote, mi pettinerei e vestirei in modo completamente diverso da lui, cercherei di fare un lavoro diverso, in un’altra parte del mondo. Quando mi guardo allo specchio non vorrei vedere l’immagine di un altro. Dal momento che non vivo questa condizione, alla quale, probabilmente, mi abituerei, l’ipotesi non può essere verificata e si tratta di chiacchiere inutili.

Le chiacchiere mentali hanno suscitato una domanda: i due sottoscala di due gemelli omozigoti sono arredati nello stesso, identico  modo?
Tratti somatici simili, alcuni identici; vita in comune nella prima infanzia, quando l’inconscio si forma. Un’unica carrozzina con due posti; stesse passeggiate, paure, pianti. Stesso petto caldo su cui rasserenarsi. Stessi odori.
Cambiano i rapporti con gli adulti, all’interno di situazioni analoghe, perché ognuno reagisce a modo suo; dunque i due sottoscala sono diversi (ci voleva tanto per capirlo?), forse hanno qualche elemento in comune nell’arredamento, come accade, suppongo, in generale tra fratelli.

Recentemente uno dei due, Fabio, ha scritto un post su Instagram per chiedere pubblicamente scusa di una reazione esagerata all’aggressione di un odiatore della rete (hater: un poveraccio che lancia giudizi cattivi senza neanche prendersi la briga di motivarli, con un unico obiettivo: ferire chi cerca di combinare qualcosa).
Fabio ha scritto che è stato rimproverato dal fratello e ha attribuito la sua reazione al carattere emotivo, alla insicurezza, alla vulnerabilità. Sembra di capire che il fratello non abbia questi problemi, o preferisca evitarli non frequentando i social.

America Latina (dove Latina sta per la cittadina laziale; America sarà un gioco di parole che gli è piaciuto e si divertono a spiegare in venti modi diversi) per buona parte, quasi fino alla fine, sembra l’analisi della psiche di un uomo tranquillo, un borghese che lavora, ha una bella famiglia (moglie e due figlie), una casa con piscina (brutta la casa, bruttissima la piscina), il cane.

“Un mattino, al risveglio da sogni inquieti” … a quest’uomo capita l’incidente di cui si diceva: nella cantina c’è una ragazzina tenuta prigioniera, legata a un tubo dell’acqua e imbavagliata.
Se non fosse un incubo, uno normale chiamerebbe il 118 e risolverebbe la questione.
Il personaggio del film è abituato a concedersi una mezza sbornia, una volta alla settimana, in macchina con un amico. Evidentemente quella vita apparentemente perfetta non gli basta, ha bisogno di evadere, anche se in un modo autodistruttivo, un modo un po’ autodistruttivo ma non tanto, un modo che non richiede impegno.
Immediatamente dopo la sconvolgente scoperta – Elio Germano ci fa saltare sulla poltrona, nonostante ci aspettiamo ciò che sta per accadere: l’abbiamo letto da parecchi mesi – ha il dubbio di essere l’autore del rapimento, della violenza. Teme di avere agito in un momento di ubriachezza, forse insieme all’amico, in una condizione di incoscienza che ha comportato una forma di amnesia. L’amnesia è la condizione permanente dell’inconscio: al risveglio dimentichiamo rapidamente ciò che è accaduto. Potremmo avere scatenato i peggiori istinti, l’aggressività repressa; se l’incubo non ci sveglia non lo ricordiamo, o rimane qualcosa che rapidamente svanisce.

Solo per un attimo Massimo cerca di liberare la bambina, ma la cosa è complicata (la vittima, terrorizzata, reagisce: si dibatte, urla, morde le mani); chiude a chiave la porta della cantina e, intanto, si comporta come se niente fosse (il personaggio di Favolacce, dopo avere scoperto i figli morti, torna a letto e aspetta che sia la moglie a scoprirli: si concede qualche minuto di pausa da vivere come se la tragedia non fosse avvenuta). Il delitto è là, davanti a sé, reale, concreto. Vuole capire se è lui l’autore, o il complice.
In quella cantina c’è un mistero che Massimo ha paura di svelare; ne ha paura perché lo conosce.
Con queste premesse, il film sembra un thriller sugli orrori presenti dietro la facciata delle famiglie per bene, delle persone che conducono una vita regolare; un po’ come Favolacce, ma più spinto nell’analisi della parte nascosta della psiche: la cantina, il sottoscala (un riferimento al bunker di Parasite).
Il dentista conosce questa parte di sé stesso: pensa di avere potuto scaricare, in un momento di perdita dell’autocontrollo, le spinte bestiali presenti nel proprio inconscio; sa che queste spinte esistono, le riconosce.
Non si dà la spiegazione logica – non ricordo niente perché non ho fatto niente – ma trova un’altra spiegazione: l’amnesia.
Avventurandosi nell’analisi psicoanalitica da bar si potrebbe dire che vuole essere l’autore del delitto, per liberarsi dei sensi di colpa causati dalle spinte nascoste nell’inconscio; vuole avere attuato quelle spinte per essere scoperto e punirsi.
A quest’ora il bar è chiuso, per cui è meglio continuare a descrivere quel poco di trama del film.
Cerca su internet i casi di bambine scomparse e le spiegazioni dei disturbi della memoria; sapremo che ha un rapporto difficile con il padre, nei confronti del quale alterna aggressività e sensi di colpa, ribellione, rabbia e pianti infantili.
È agitato da vari sospetti: potrebbe avere rapito la bambina insieme all’amico, l’amico potrebbe avere rapito la bambina e averla nascosta in casa sua; arriva a sospettare la moglie e le figlie, a cui attribuisce l’intenzione di liberarsi di lui facendolo internare in un manicomio.

L’uomo tranquillo, soddisfatto, borghese (come in questo film); il proletario (come in Favolacce); il sottoproletario (come in La terra dell’abbastanza) – abitante nella periferia romana, a Spinaceto o alla periferia di Latina, sa che nel proprio inconscio albergano pensieri orribili che potrebbero determinare, in certe condizioni, azioni orribili.
Questa è la chiave di lettura che ho dedotto dall’incipit e mi è sembrata giusta quasi fino alla fine.

Nelle ultime scene i registi ci danno la soluzione del thriller, che ora rivelo. Chi non ha visto il film e non sopporta la rivelazione dei dettagli o del finale di una trama si fermi qui.
La soluzione, banale, ci viene rivelata da uno speaker della televisione dopo che il dentista si è deciso a chiamare la polizia: abbiamo assistito al caso di un malato mentale che viveva da solo, si era costruito una famiglia immaginaria e ha commesso un delitto.

Siamo passati dalla nevrosi alla psicosi, molto meno interessante al cinema, in quanto non consente l’identificazione: nevrotici siamo un po’ tutti; gli psicotici sono una categoria di malati precisa che presentano, spesso, anche disturbi organici (il capocchione bitorzoluto indossato da Elio Germano per interpretare questo personaggio … poteva far sospettare qualcosa).

Trovo che la soluzione del thriller, rivelata alla fine dai registi, sia deludente. Che soluzione volevi? Non lo so. Forse addirittura nessuna soluzione: abbandonare lo spettatore a sé stesso, lasciarlo nei dubbi seminati sapientemente per tutto il film, accentuare l’ambiguità della situazione, portarla alle estreme conseguenze, aprire a tutte le ipotesi e far partire i titoli di coda, con una musica analoga alla meravigliosa Passacaglia della vita del XVII secolo che concludeva il film precedente.
Mi sarei aspettato una coerenza totale con l’assunto iniziale (la follia non è cosa esterna, ma si trova dentro alla normalità), assunto a cui i fratelli D’Innocenzo sono affezionati almeno da Favolacce in poi, come sono affezionati all’ambiente, a quei personaggi secondari che descrivono un mondo (il barista sbrigativo, l’amico che “si arrangia”, lavora in una concessionaria e parla delle donne in termini di «tu non te la scoperesti?»), a quelle villette, a quei posti che a me, forse anche a Fabio e a Damiano, danno una tristezza infinita.
Com’è diverso lo stesso ambiente descritto da Gianni Di Gregorio in Lontano Lontano !
Anche in quel film c’è la campagna alla periferia di Roma “tra panini con la porchetta, bicchieri di vino, birre, caffè ai tavolini dei bar, incontri a volte fortunati …” (preso dal commento, su questo sito).
Evidentemente, l’allegria è nello sguardo del regista, e, di conseguenza, nello sguardo dello spettatore. Anche una cerimonia funebre può essere allegra se chi la descrive la vede in quel modo (Antonio Capuano – Achille Tarallo, ma anche: Vittorio De Sica – episodio dell’anello in Ieri, oggi, domani).

I fratelli D’Innocenzo sono capaci di realizzare scene di grande difficoltà. Conoscevamo Sara Ciocca, l’attrice che interpreta la ragazzina rapita, come una simpatica ragazzina (recentemente in La famiglia mostruosa); è bravissima in una parte difficile. Elio Germano, come sempre, si cala perfettamente nel personaggio.

Le due figlie del dentista, dopo che abbiamo saputo che sono una visione nella mente di un pazzo, soprattutto nella scena finale e ripensandole per tutto il film, richiamano le bambine che, in Shining di Kubrick, apparivano nei corridoi dell’albergo. Non c’è l’elemento diabolico e la moglie non viene minacciata, perché anche lei non è reale e il pazzo non è furioso, come il personaggio interpretato da Jack Nicholson; il povero Massimo fa male soprattutto a sé stesso (e alla bambina rapita).

Un film di Damiano e Fabio D’Innocenzo vale sempre la pena di essere visto, anche se questo non raggiunge il livello del primo: La terra dell’abbastanza. È come se i due registi, scoperto uno stile (primissimi piani, immagini distorte, la bocca riempita di cibo, in questo caso di fette di torta) e un soggetto che li appassiona (la gente che abita la periferia laziale), ci girassero intorno e si fossero precipitati a realizzare un progetto prima di averlo maturato.

La frase più bella dei fratelli D’Innocenzo sul film: «Volevamo quasi fare un film muto». La ricerca di questi due geniali registi continua.