27 aprile 2023 h 17.00
Cinema Teatro La Compagnia Firenze – via Cavour, 50r
Altro film del regista: // Parasite //
Suspense (alta tensione: thriller e/o horror)
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Nuovo Cinema Corea
// Ritorno a Seul // Cane che abbaia non morde [Barking dogs never bite] // Next Sohee // Miracle: Letters to the President // Nido di vipere // Parasite //
Si può ammazzare un cane perché il suo abbaiare dà fastidio? Secondo il protagonista di “Cane che abbaia non morde”, regia di Bong Joon-ho, si può.
Titolo internazionale: Barking dogs never bite (2000). È il primo lungometraggio del regista coreano autore di Parasite (Palma d’oro a Cannes 2019).
Yun-ju è un giovane assistente universitario. Vive, insieme alla moglie, in un enorme parallelepipedo costituito da centinaia di piccoli appartamenti distribuiti su quattordici piani, alla periferia della grande città, in Corea del Sud.
Un terrazzino comune, stretto e lungo, percorre interamente la facciata del palazzone, replicato in corrispondenza dei piani.
In cima c’è una terrazza; in fondo, sotto all’edificio, un ampio scantinato dov’è alloggiata la caldaia. Chi ha visto Parasite ricorda il bunker antiatomico nel quale la vicenda raccontata nel film subisce una svolta angosciosa che rimane impressa nella memoria come le scene più drammatiche di Psycho e di Shining.
Bong Joon-ho, come Hitchcock e come Kubrick, non costruisce simboli: racconta situazioni e luoghi reali. Tra questi un ambiente appartato nel quale il male presente nella vita ordinaria si accumula.
In tutti gli altri posti il male è nascosto da un codice di comportamento che riesce a salvaguardare l’apparenza (buon giorno, buona sera, permesso!, mi scusi!, auguri!). Nel sottoscala o nel bunker non ci sono freni inibitori e non c’è ipocrisia.
Yun-ju non riesce a fare il grande passo (da assistente a professore) perché non ha i soldi da dare sottobanco al preside della facoltà. Non si ribella al sistema, è infelice perché non riesce ad adeguarsi. Non ha obiezioni di ordine morale al comportamento del preside. Tutti si comportano in quel modo: chi prende la tangente per promuovere e chi la paga per essere promosso. Un altro assistente paga e diventa professore; il preside gli propone di festeggiare la promozione bevendo insieme a lui. Si sa che l’incontro si trasformerà in una sbronza colossale. Non conviene sottrarsi a un invito del preside. L’assistente accetta nonostante sia astemio. Nel corso della serata arriva l’ambulanza che lo porta al pronto soccorso.
Yun-ju vive a carico della moglie. La moglie, incinta, lo disprezza perché non riesce a produrre reddito, lo tratta come un cameriere.
Intanto è infastidito dall’abbaiare stizzoso di un cane.
In quell’alveare umano vivono centinaia di famiglie, vecchi rimasti soli. Vive gente inacidita dal mito del successo che non è riuscita a raggiungere.
I condomini sono indipendenti, ma le pareti degli appartamenti sono così sottili da costringerli a sopportare i rumori degli altri, tra i quali l’abbaiare insistente di un cane. Chi abita queste case? Impiegati, pensionati, proletari, piccoli borghesi: l’ossatura della società, almeno dal punto di vista demografico. I ricchi vivono in grandi ville isolate fornite di tutti i sistemi di protezione, compreso il rifugio antiatomico in cui nascondersi in caso di attacco proveniente dalla Corea del Nord.
Yun-ju annega nella pigrizia e nella noia, in attesa di una svolta; sviluppa ossessioni.
Bong Joon-ho non lancia messaggi, racconta storie; tocca a noi, se vogliamo, prenderle come spunto per riflettere su “Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo” – film delizioso del 1964 che fortemente consiglio di recuperare, con Spencer Tracy e Mickey Rooney, regia di Stanley Kramer; titolo originale: It’s a Mad, Mad, Mad, Mad World.
Non c’entra nulla con questo film, lo so, ma è il ricordo di un’epoca in cui si riusciva a ridere intorno ai mali del mondo.
Il concetto di aldilà da noi è affievolito nella coscienza di molti. In Corea del Sud sembra scomparso del tutto, a giudicare dai film.
Se esiste solo la vita che si svolge nella realtà immediata, se un altro mondo non esiste, qualunque gesto è ammissibile per godere di un privilegio o per eliminare un fastidio. Privati della speranza o della paura di un destino eterno – qualunque forma o natura o collocazione abbia – alcuni uomini si trasformano in bestie amorali. Dico questo da una posizione agnostica in fatto di religioni. Correggo: non alcuni, molti uomini hanno bisogno dell’aldilà per frenare istinti che mettono in pericolo la sopravvivenza della società. Come la vecchiaia secondo Bette Davis, l’agnosticismo non è roba per femminucce (aggiungo: per maschietti rozzi, molto più pericolosi).
Il portinaio dello stabile, personaggio disgustoso, forse per allontanare tutti dal suo regno (lo scantinato), racconta la storia di un idraulico ucciso e nascosto dagli assassini tra la caldaia e il muro. Dice che ogni tanto si sente il suo lamento, mescolato al rumore della caldaia in funzione. La storia raccapricciante non fa pensare all’altro mondo. Il morto è rimasto prigioniero nel corpo murato; il suo ripetere «gira, gira» è un modo per vendicarsi degli assassini. Le ultime parole pronunciate prima di essere ucciso erano state: «La caldaia gira, gira, nonostante abbiate utilizzato materiale scadente per arricchirvi». Ecco perché ripete «gira, gira». La vendetta, o la punizione, viene attuata in questo mondo, da un uomo morto che non abbandona i sentimenti che aveva da vivo, conserva addirittura l’accento della regione di provenienza.
Se non c’è una coscienza a dettare regole di comportamento basilari (i princìpi che ci hanno consentito di uscire dallo stato selvaggio), nulla può impedirci di uccidere un cane perché infastiditi dal suo abbaiare. È ciò che accade al giovane assistente universitario. Accade, come se non dipendesse dalla sua volontà, perché non gli viene mai il dubbio se sia giusto compiere un atto atroce nei confronti del cane e della sua padroncina, una bambina che dichiara «Se non ritrovo il mio cagnolino non vado più a scuola, non mangio più, mi lascio morire».
«Non dovresti essere a scuola?» le ha chiesto Park Hyun-nam, la buona ragazza che stampa i manifesti con la foto del cane scomparso da affiggere nel quartiere. La risposta, disperata, della bambina è stata: «Se non ritrovo il mio cagnolino non vado più a scuola, non mangio più, mi lascio morire».
Che cosa è accaduto?
Yun-ju ha trovato casualmente, sul lungo terrazzino che collega tutti gli appartamenti di un piano, un cagnolino munito di guinzaglio, sfuggito a qualcuno dei condomini. Non ha dubbi: è il cane che abbaia in continuazione. Decide di ammazzarlo.
Al preside della facoltà fa piacere bere insieme ai suoi assistenti, fa piacere prendere tangenti per promuoverli professori. Non si pone limiti, non ha sensi di colpa.
Con la stessa naturalezza Yun-ju decide di eliminare la causa della sua ossessione.
Porta il cane sulla terrazza, ma non ha il coraggio di farlo precipitare nel vuoto. Lo porta nello scantinato. Non ha il coraggio di impiccarlo; lo chiude in un armadio e va via soddisfatto: ha risolto il problema.
Non siamo in un horror, sullo schermo non si vedono scene cruente; Bong Joon-ho ha fatto sua la lezione di Hitchcock: sono molto più impressionanti le immagini che lo spettatore costruisce da sé nella propria mente dei trucchi cinematografici o della realtà virtuale.
Delitto senza castigo: Yun-ju sembra soddisfatto. Pare non ci sia il Super-Io, il guardiano che ci osserva con aria severa. Alla fine vedremo che anche nella patria della Samsung il Super-Io, come lo chiamava Freud, c’è. È un po’ abbioccato, ma c’è.
Una buona ragazza, Park Hyun-nam, vive con la sua amica in una piccola edicola piena di cianfrusaglie, stampa i manifesti da affiggere per cercare i cani scomparsi e indaga per scoprire i responsabili della sparizione.
Tifiamo per la ragazza, nonostante sappiamo che si dà da fare non solo perché è buona, ma anche perché vuole raggiungere la fama televisiva, vuole diventare l’eroina che ha scovato il colpevole di un gesto feroce. Sogna di essere intervistata. Anche il personaggio positivo è influenzato dal mito del successo, sintomo della malattia che sembra (dai film) dominare la società sudcoreana. Il successo non premia tutti, la realtà è dura, faticosa, neanche il sonno riesce a dare un momento di tregua. Per capire come Yun-ju sia disturbato basta vedere come dorme. È un dettaglio che segnala il talento del regista trentenne (nel 2000, quando ha girato il film). A volte il giovane si sveglia all’improvviso, accende la luce; la compagna implora: «lasciami dormire».
Sembra che nessuno riesca a riposare abbastanza in quel condominio, in quella città; tutti avvertono il bisogno di cancellare le frustrazioni con l’alcol: il preside della facoltà, gli assistenti universitari, le due amiche che vivono dentro al negozietto. Tutti trovano un po’ di riposo ubriacandosi.
Chi non ha visto il film e non sopporta il cosiddetto spoiler interrompa la lettura: sto per raccontare la parte finale.
Yun-ju scopre di avere fatto morire di fame il cane sbagliato. Il cagnolino che ha chiuso nell’armadio non poteva abbaiare perché aveva le corde vocali recise, una tortura a cui alcuni sottopongono l’amico dell’uomo per consentirgli di essere colmato di affetto negli appartamenti moderni. Si riempie il cane di carezze ma non deve svegliare i vicini; la bambina vorrebbe morire perché non riesce a trovarlo, però ha partecipato, inconsapevole, alla tortura a cui i suoi genitori lo hanno sottoposto: «Babbo, perché il mio cane non abbaia?», «Perché non deve dare fastidio». Nella penisola coreana, non solo nella penisola coreana, ci dev’essere un virus che attacca il cervello, un virus deciso a rendere gli uomini sempre più cattivi, sempre più infelici.
Yun-ju è costretto (dalla sua follia) a catturare e uccidere con il veleno un altro cane, unica compagnia di una vecchia rimasta sola. La poveretta è stroncata da un colpo apoplettico quando scopre il cadavere del suo piccolo amico.
Qui c’è una svolta geniale (ho avvertito chi non ama lo spoiler). La moglie di Yun-ju – che in casa mangia solo noci e costringe il marito a romperle prima di consentirgli di uscire e andare a ubriacarsi – gli fa una sorpresa: rientra con un cagnolino che ha comprato con la liquidazione ottenuta dalla ditta dove lavora. La ditta l’ha licenziata perché non vuole avere alle dipendenze una donna che sta per partorire (capitalismo privo di controlli, nessun sindacato, nessun diritto dei lavoratori).
Il disvelamento della sorpresa produce un effetto comico che alleggerisce la pesantezza della trama.
Yun-ju è obbligato dalla moglie a portare a passeggio il cagnolino acquistato. Si distrae, lo perde (c’è anche la nuvola disinfettante che abbiamo visto in azione in Parasite). È costretto a trascorrere una notte intera nella ricerca del cagnolino disperso in quanto la moglie non gli darà il resto della liquidazione, necessario per corrompere il preside della facoltà, se non lo ritrova.
Ci sono altri personaggi interessanti. Alcuni sono folli ancora più di Yun-ju (se possiamo chiamare follia l’assenza di qualunque regola morale), altri sono estranei alla società: si sono ritagliati un piccolo pezzo di mondo in cui cercano di vivere a modo loro.
Solo alla fine si accende un lumicino: Yun-ju avverte il bisogno di confessare la sua colpa alla buona Park Hyun-nam, la ragazza che stampa e diffonde i manifesti dei cani dispersi. Capisce che non è giusto continuare a ingannare una ragazza che si fida ed è disponibile ad aiutare tutti, capisce che non può rubare un sentimento importante come l’amicizia a una persona pulita dentro. Le dà un segno, senza compromettersi, che le consente di capire con chi ha avuto a che fare. Si allontana da lei.
Ritrova il cagnolino della moglie. La moglie gli dà il denaro necessario per corrompere il preside della facoltà. Yun-ju diventa docente. Ora si trova in un’aula universitaria e tiene la sua lezione agli studenti. Ha ottenuto ciò che desiderava. La cinepresa si ferma sul suo volto. A me sembra infelice.
È facile fare una profezia dopo che si è avverata, ma Barking dogs never bite ha tutte le caratteristiche che potevano far presagire un grande futuro per il regista Bong Joon-ho, oggi considerato, a ragione, un maestro del cinema mondiale.