13 marzo 2024 h 16.30
Cineplex Pontedera (PI) – via Tosco Romagnola, 235B
Scuola
// La sala professori // Next Sohee // Educazione fisica // Close //
Famiglia (genitori e figli)
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È dura fare l’insegnante.
È dura perché sei circondata da persone mediocri, meschine: gli altri insegnanti, il vicepreside, la preside.
Si rifugiano dietro a frasi fatte, come “tolleranza zero”, per nascondere il disagio, l’avversione prodotta dal magma vulcanico, sempre in ebollizione, con il quale sono costrette dal loro lavoro a confrontarsi in continuazione.
Tolleranza zero per tutte le deviazioni dalla norma. Il problema è che gli alunni non sono “normali”, nel senso che provengono da realtà profondamente diverse: famiglie ricche e famiglie povere, intellettuali e ignoranti, tedesche (la scuola si trova in Germania) o turche, o provenienti da altre nazioni, da altre culture, altre lingue, altre religioni. È difficile non offendere, involontariamente, chi si offende perché il figlio è stato sospettato di un furto. Il padre tassista turco si sente discriminato se il figlio è tra i sospettati: «mio figlio non ruberebbe mai, perché sa che se lo facesse gli spezzerei le gambe». E guarda i professori che lo hanno convocato come si guardano i nemici.
Chi si sente accusato perché il figlio non studia o non ama la matematica reagisce. Tu pensi che sono un cattivo genitore, attribuisci a me la colpa delle mancanze di mio figlio; io dico che sei un cattivo insegnante: non sai suscitare l’interesse degli alunni per la tua disciplina. Siamo pari. «Professoressa, i ragazzi dicono che non capiscono. Perché non prova a farsi capire?».
Di conseguenza l’aula dove si riunisce il consiglio di classe diventa un tribunale in cui i ruoli sembrano stabiliti in partenza, ma possono cambiare improvvisamente. All’inizio la professoressa che conduce la riunione è il giudice, ma una dolce e decisa signora, incinta, chiede la parola e le sottrae il ruolo, con la complicità, anche solo passiva, degli altri genitori. A quel punto la professoressa deve difendersi e deve giustificare scelte che non ha condiviso. Non può dire: «È vero. La preside e il vicepreside hanno sbagliato. Non dovevano chiedere ai vostri figli di denunciare i compagni». In quel momento la professoressa rappresenta l’istituzione di cui fa parte, non può separare le proprie responsabilità dalle scelte del Collegio docenti che ha votato e deciso a maggioranza una linea di condotta.
È dura perché tu credi nella verità, perché il sistema crede nella verità, perché gli altri insegnanti e la preside fingono di credere nell’obbligo di dire sempre tutta la verità. «Vi raccontiamo tutto, non nascondiamo nulla». «Abbiamo il diritto di sapere ciò che è successo». È il dogma delle riunioni con i genitori. In realtà i professori non credono al dogma (soprattutto gli insegnanti che sono genitori, mariti, mogli e sanno come si sopravvive). Quelli che ci credono fanno i guai peggiori.
Tu volevi basare sull’affetto reciproco il rapporto con i tuoi alunni e li ami veramente, ma non puoi sottrarti al loro odio (alternato con un vago affetto e all’indifferenza). Tu sei quella che li obbliga a studiare, quella che li ricatta; sei odiata anche più dei genitori, verso i quali l’odio è coperto e mascherato dai sensi di colpa.
È dura se disprezzi gli altri insegnanti e la preside. Li consideri mediocri e non hai neanche l’accortezza di fingere: è sicuro che te la faranno pagare. Un insegnante non può fare niente di peggio che mostrarsi più intelligente degli altri; gli altri, offesi, invidiosi, andranno a scavare con la lente d’ingrandimento nei suoi difetti.
È dura se ti fai trascinare dall’impulso a risolvere un problema senza valutare i mezzi.
C’è un problema: sono avvenuti dei furti in sala insegnanti. I colleghi e la preside hanno la certezza, non si sa da cosa motivata, che l’autore sia un alunno, probabilmente di origine extracomunitaria. Non sanno chi sia. Tu non sei convinta (abbiamo detto che disprezzi la maggior parte dei colleghi, la preside e il vicepreside). D’impulso organizzi un tranello per smascherare il colpevole. Metti dei soldi nella giacca, lasci la giacca appesa alla spalliera della sedia, lasci il tablet acceso con la fotocamera in funzione. Ti allontani.
In un momento in cui la sala insegnanti è vuota la fotocamera riprende un braccio furtivo coperto da una camicetta a fiori, una mano fruga nella giacca appesa alla spalliera della sedia.
La persona che indossa la camicetta a fiori e può accedere alla sala insegnanti nei tempi morti è la segretaria (oggi da noi si chiama direttore amministrativo, i presidi e i bidelli si chiamano in un altro modo, ma a me piacciono i vecchi nomi). Credi di avere risolto il giallo dei furti e non ti domandi come mai la giustizia segua procedimenti lunghi e complicati per valutare le prove.
La tua ripresa è una violazione della privacy, quindi sarebbe inutilizzabile in tribunale. Le riprese devono essere autorizzate dal giudice.
Può sembrare un dettaglio di poco conto, ma è sostanza.
Nelle democrazie moderne ci siamo liberati dai tribunali del popolo con una serie di regole che non sono forma ma sostanza.
Dunque hai commesso un reato: hai infranto la privacy della presunta ladra e degli altri insegnanti. Non è forma, è sostanza che dev’essere rispettata: non sei a casa tua ma in un luogo pubblico.
Tieni presente che vige la presunzione di innocenza e dev’essere il tribunale, non una professoressa velleitaria e impulsiva, a stabilire se l’imputato è colpevole.
Che cosa hai registrato? Due fotogrammi di un braccio coperto da una camicetta a fiori in un luogo a cui accedono in continuazione molte persone.
Un giudice affiderebbe a un esperto la valutazione della “prova”, ammesso che possa essere utilizzata.
Se dichiarata inutilizzabile, o dichiarata inaffidabile dall’esperto, la tua accusa, se ti va bene, diventa un pettegolezzo. Se ti va male ti costringerà ad affrontare un processo nel ruolo di imputato reo confesso.
Purtroppo i pettegolezzi viaggiano veloci, non hanno bisogno di autorizzazione e una volta avviati non tornano indietro.
Diventano la famosa “verità”, indipendente dalla verità processuale.
Succede quando qualcuno dice: è stato assolto, ma …
Se ci rifletti: che cosa hai visto? Hai visto un braccio coperto da una camicetta a fiori, una mano che rovista in un portafogli, in una sala in cui c’è un via vai continuo di persone (la scuola è grande e fino a questo momento gli accusati erano gli alunni). Questi guai succedono quando si crede a ciò che si vede con i propri occhi.
Armata della verità racchiusa in uno stupido tablet, d’impulso (la seconda volta) vai a parlare con la segretaria pensando che si arrenda all’evidenza della “prova”.
La segretaria reagisce come reagisce una persona innocente o una cleptomane che non si rende conto e non ricorda quello che fa (il giudice avrebbe convocato un esperto per valutare questa possibilità, se la tua “prova” fosse passata). Non hai considerato che l’eventuale ladra potrebbe essere malata.
Oppure reagisce come una persona disperata.
Non hai considerato questa possibilità. La tua disponibilità verso gli altri non si estende ai disperati?
In fondo non hai avuto un grave danno, hai fatto un gesto d’impulso: sorvola! La prossima volta non lasciare la giacca in sala insegnanti e non cercare di influenzare l’andamento delle cose. Che cosa ti fa pensare che la verità debba essere messa davanti a tutto, senza badare alle conseguenze? Che cosa ti fa credere che i ladri non siano più di uno e i furti non ricominceranno dopo averne catturato uno? Rimetterai in funzione il tablet? Se qualcuno vuole per forza credere che è stato un alunno di famiglia extracomunitaria continuerà a crederlo, anche dopo che avrai portato a termine la tua caccia personale. Per quale motivo vuoi costringere la donna alla resa? Per recuperare i pochi soldi che hai messo in gioco? Per amore della verità? «Quid est veritas?» chiese Pilato e io mi associo alla sua domanda.
La segretaria, innocente o cleptomane o disperata non accetta la proposta di conciliazione: ti perdono se confessi, se ti umili, se mi ridai indietro i soldi.
Il dramma è aggravato dalle conseguenze sul figlio della segretaria, Oskar, un ragazzo malinconico e intelligentissimo, alunno nella stessa classe della professoressa.
Malinconico già prima del dramma (dall’inizio alla fine non si vede il padre; la madre sembra un cane maltrattato). Dotato di capacità di astrazione: nella classe solo lui capisce che tra zero virgola nove periodico e uno non c’è nulla.
La situazione s’ingarbuglia molto e non ha soluzione: neanche la fuga è possibile perché mancano gli insegnanti e la professoressa non può cambiare classe.
Dopo la scena straziante di Oskar che versa sul tavolo i suoi piccoli risparmi di bambino dicendo: «Le restituisco i soldi, ma deve dire che mia madre non ha rubato», c’è una sola possibilità: ritirare l’accusa, far trionfare la falsità buona sulla verità cattiva, sperando di riuscire a placare la tempesta.
Dal racconto credo risulti evidente come questo film mi abbia catturato. Siccome ognuno, in questo periodo, si diverte a dare un personale premio Oscar 2024, lo faccio anch’io: questo è il mio. Un premio al regista e uno come attore coprotagonista al bambino che interpreta Oskar, perché è bravo e perché mi consente una battuta nel corso della presentazione. «l’Oscar a Oskar»; a una battuta banale non si può rinunciare.