5 dicembre 2022 h 18.30
Cinema Flora Atelier Firenze – piazza Dalmazia, 2r

I vecchi
// The Miracle Club // Perfect Days // Adagio (vecchi delinquenti) // Coup de chance e The Old Oak (vecchi registi) // Bassifondi // Scordato // La quattordicesima domenica del tempo ordinario // Il Sol dell’Avvenire // Il ritorno di Casanova // Non così vicino [A man called Otto] // Orlando // Il piacere è tutto mio // Astolfo // Rimini // Nostalgia // Settembre // Belfast // Callas Forever // Cry Macho // Boys // The father [Nulla è come sembra] // Nomadland // LONTANO LONTANO // Le nostre anime di notte (commento al libro) // Herzog incontra Gorbaciov // The Irishman // Dolor y Gloria // Stan & Ollie [Stanlio & Ollio] // Can you ever forgive me? [Copia originale] // Il Corriere [The Mule] // Moschettieri del re // Lucky // Loro // L’ultimo viaggio // Ricomincio da noi // Ella & John //

Michele Placido interpreta un grosso e tozzo contadino ottantenne, orgoglioso delle sue origini («non sono ciociaro, sono sabino»), spaesato, costretto a vivere in un mondo che non capisce.
La morte del figlio lo ha costretto a trasferirsi dalla campagna alla metropoli (Bruxelles), dove ha scoperto l’esistenza di una nipote dodicenne che il figlio ha cresciuto da solo (la madre è sparita) e ora gli viene affidata, in quanto parente prossimo, dai servizi sociali belgi.
Diciamo la verità: nonostante tutta l’ammirazione per Michele Placido e la simpatia per la dedica del film a Ettore Scola, il desiderio di farmi piacere questo film non è sufficiente per impedirmi di notare come la storia sia artificiosa, come suoni falsa, costruita a tavolino.
Non so se provenga da un’esperienza personale, da un libro, non m’interessa indagare. La storia raccontata sullo schermo, come viene raccontata, ai miei sensi (udito, vista, immaginazione) suona falsa, nonostante sia accompagnata da una interpretazione incisiva di un grande attore che, evidentemente, si è concentrato sul suo ruolo e ha letto poco la sceneggiatura.
Il contadino ha fatto solo la quinta elementare, non si è mai mosso dal suo campetto in provincia di Rieti – tra broccoli e galline – e non guarda la televisione.
Unico svago: accompagnare con la fisarmonica gli invitati a un matrimonio che si divertono saltellando su un motivo fisso, sempre lo stesso per ore e ore.
A me sembra che la campagna laziale non sia così chiusa, così isolata dal resto del mondo e bloccata nel passato; i contadini si muovono (siamo a due passi da Rieti, da Roma), guardano la televisione. Molti sono emigrati, hanno interagito in modi vari, positivi e negativi, con la modernità e hanno portato in paese altre esperienze.
I personaggi portano la mascherina, dunque la storia si svolge in questi giorni.

Per dare un senso al racconto sarebbe bastato il confronto tra due generazioni, senza accentuare la distanza culturale tra i due personaggi costretti dalle circostanze a interagire.
Siamo proprio sicuri che tra il vecchio vissuto nel paesino di campagna e la ragazzina cresciuta in una città moderna ci sia l’abisso mostrato nel film?
La televisione, gli scambi commerciali, i viaggi hanno uniformato un po’ tutto: facciamo la spesa negli stessi supermercati e la paghiamo con la stessa moneta; tra il Belgio e l’Italia parliamo la stessa lingua: l’euro.
Per accentuare le differenze gli sceneggiatori hanno disegnato un vecchio chiuso al limite dell’autismo e tozzo come i ceppi che si mettono nel camino per mantenere viva la fiamma per tutta la serata; dall’altra parte hanno disegnato una nipotina dodicenne saccente, che guarda il nonno con aria di superiorità e non gli dice «per favore non fumare in camera», gli fa la lezioncina: «non si fuma in camera perché fa male, si fuma nel giardino». Verrebbe voglia di risponderle: «anche andare a letto con lo smartphone fa male. Va a “chattare” stronzate nel giardino» (la parolaccia è tra virgolette).
Una ragazzina abituata a essere presuntuosa è insopportabile: parla del nonno con l’amica come fosse un oggetto strano, un uomo primitivo piovuto nel mondo della civiltà superiore.

La sceneggiatura accentua la distanza tra i due mondi e rappresenta davvero l’ambiente da cui proviene Orlando come fosse primitivo; in conseguenza, il contadino che scende dal treno e si aggira per le strade di Bruxelles con un biglietto su cui è scritto un indirizzo ricorda Totò e Peppino alla stazione di Milano. Manca solo il «noio vulevon savuar», manca perché Orlando parla pochissimo, a volte sembra muto, e non indossa il colbacco. Sicuramente, se osasse dire qualcosa alla poliziotta belga che l’ha fermato perché ha la carta d’identità scaduta, chiederebbe “l’idriss” del consolato e concluderebbe con una domanda: «Per andare dove devo andare, per dove devo andare?».
Non conosce la lingua, ma anche all’inizio, quando era nel bar della figlia a fare colazione – un bicchiere di vino a prima mattina, forse agli sceneggiatori è sembrata poco “contadina” la colazione con cornetto e cappuccino – parlava poco e aveva un’aria depressa, sicuramente per via del figlio emigrato in Belgio con il quale si sono interrotti i rapporti da anni (Il figlio mantiene un contatto telefonico solo con la sorella).
Anche questa situazione è forzata: il padre non voleva che il figlio emigrasse, gli ha tirato uno schiaffo al momento della partenza, non ha contatti con lui da almeno dodici anni.
Io credo che l’affetto non si esaurisca per uno schiaffo, soprattutto in un “sabino” che ha solo il padre e una sorella; credo che il padre sia tra le prime persone a cui un figlio desidera far conoscere la propria figlia.

A Bruxelles Orlando non porta il colbacco, però nasconde i biglietti da cento euro in un pacchetto nella tasca più interna della giacca – finalmente ho visto uno che va in giro con 5000 euro in contanti senza essere uno spacciatore (mi riferisco alla polemica attuale sull’innalzamento del tetto del contante, polemica che tra un mese, scommetto, sarà completamente dimenticata e il governo si occuperà di cose molto più serie).

Quando prende i soldi Orlando è guardingo come un ladro o come uno che teme di essere derubato, forse li pesa in una mano per contarli, come faceva Peppino De Filippo in un film. Scommetto che prima di andare a dormire li nasconde sotto al materasso del divano letto su cui passa le notti.  Non può nasconderli dentro al materasso, come si faceva una volta, perché i materassi attuali, certamente i materassi brussellesi, non sono di lana ricoperta da una federa di stoffa ma di materiale sintetico compatto.
Qualcosa mi dice che i contadini sabini hanno imparato a usare la carta di credito e hanno capito che li difende dai ladri più del pacchetto nascosto nella tasca interna della giacca o sotto al materasso. Più arretrato dei contadini ottantenni è il solito politico chiacchierone, che si sveglia con un pensiero fisso: esisto se parlano di me.

Naturalmente a Bruxelles il pacchetto dei soldi si esaurisce rapidamente e il vecchio è costretto a sobbarcarsi lavoro nero pericoloso.
La ragazzina, che non brilla per altruismo e parla un italiano troppo fluente per una che non è mai stata in Italia e ha appreso la lingua dal babbo, ha deciso: «Non mi muovo da qui!».

Neanche la curiosità di conoscere il paese del padre defunto! Il nonno deve sfiancarsi sotto lavori inadatti a un uomo anziano, deve farsi derubare dal proprietario dell’appartamento dato in affitto probabilmente senza contratto (prende i soldi e non firma mai una ricevuta) ma lei ha deciso: «Non mi muovo da qui!».

Il povero vecchio non ha alternative: o rinuncia all’affido e dà la nipote in adozione, o muore a Bruxelles.

Non sappiamo come va a finire, il regista ci lascia un punto interrogativo.
Però qualcosa è successo: si è costruito un ponte di affetto tra i due lati del fiume che separa la campagna laziale (attuale o antica che sia) e una città avveniristica come Bruxelles.

In questo film non tutto torna, però l’interpretazione di Michele Placido è così intensa che il suo sguardo sperduto e la sua postura sono le uniche cose che rimangono impresse nella memoria all’uscita dalla sala (nonostante le esagerazioni provenienti dalla sceneggiatura).